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Traiettorie sociologiche: Il Progetto Chance una nuova cittadinanza per giovani altrimenti esclusi e per tutti

Venerdì 20 novembre 2009 è stata approvata ufficialmente la delibera della Regione Campania che trasforma il Progetto Chance in una risorsa ordinaria per dodici scuole.
Il Progetto Chance è un progetto contro la dispersione e l’abbandono scolastico da parte di minori in età di obbligo, attivo da undici anni.
In quello stesso giorno si svolgeva il convegno Civitas Educationis - Interrogazioni e sfide pedagogiche, presenti i cattedratici di una decina delle principali università italiane. Si parlava in qualche modo di ruolo civile dell’educazione, ed è sembrata una occasione significativa per parlare del Progetto Chance.
Quella che segue è la rielaborazione dell’intervento che Cesare Moreno, uno dei “maestri di strada” fondatori del Progetto ha presentato al convegno. Noi di “Traiettorie Sociologiche” siamo onorati di proporla alla lettura, e ringraziamo Agoravox per aver condiviso questa decisione.
Adolfo Fattori
 

di Cesare Moreno (Presidente dell’Associazione “Maestri di Strada” onlus)
 
 
Cosa può essere il progetto Chance per la scuola e per la società
Questa occasione mi spinge a esporre nella maniera più diretta, più semplice e lineare quale è – io credo – il problema educativo attuale, che non riguarda Chance ma le basi su cui è fondata la nostra convivenza civile.
 
Il Progetto Chance ha rappresentato per undici anni un progetto di nuova cittadinanza fondato su giovani altrimenti esclusi. La portata generale del progetto deriva dal suo collocarsi in un punto strategico dello sviluppo di una società, quello in cui i giovani cittadini fanno il loro ingresso nell’ordine sociale esistente. In questo punto che appartiene insieme all’ordine dello spazio sociale e all’ordine dello spazio mentale di una civiltà, si realizza un incontro tra una configurazione sociale esistente e una nuova forma da realizzare insieme ai nuovi venuti. In questo punto si decide se una società è capace di crescere o semplicemente di includere, assimilare, digerire il nuovo, ingrassando senza crescere. Le periferie sociali, le periferie geografiche, le periferie dell’animo hanno un tratto comune: la capacità di mettere in discussione il patto sociale preesistente, la certezza dei fondamenti, la sicurezza dei ruoli sociali.
 
I barbari alle porte 
C’è un modo di trattare coloro che premono sui confini della società che è epistemologicamente escludente. Quelli di fuori sono “barbari”: non parlano la nostra lingua, non condividono il nostro episteme, la nostra Weltanshauung, possono diventare dei “nostri” a patto che imparino prima la nostra lingua.
L’educazione, e prima di questa la scuola che insegna a leggere-scrivere-e-far-di-conto, rappresenta da questo punto di vista una porta di ingresso nel sociale, l’occasione in cui i sogni privati di milioni di famiglie possono diventare un progetto di trasformazione e crescita sociale. 
 
Oppure no, la scuola può avere un ruolo da forche caudine: una porta al cui passaggio è necessario abbassare il capo, essere umanamente umiliati per essere portati in società come prede piuttosto che come cittadini sovrani. Le pratiche educative che non siano anche pratiche di libertà, di cittadinanza immediata (non rimandata sine die), di creatività – libera invenzione di sé – non sono pratiche che allargano i confini della società, ma pratiche che pretendono di far passare il canapo nella cruna dell’ago. 
 
Milioni di giovani vivono la scuola in questo modo. I primi sono proprio quelli per i quali la scuola può vantare il “successo formativo”, il successo di una operazione di assimilazione che assume troppo spesso i contorni del conformismo, della sudditanza, di una omologazione che generano sofferenza e disagio a cui i giovani stessi non possono che dare risposte stereotipe, conformi a un modello sociale che li ha privati della capacità di reinventarsi. Gli ultimi che vivono male la scuola sono quelli presso cui la scuola non può vantare alcun successo, quelli che sono restati fuori, i drop out, gli emarginati.
 
Secondo il punto di vista che stiamo proponendo questi ultimi potrebbero vantare la “purezza”, una sorta di selvaggia estraneità al conformismo sociale che ne farebbe addirittura dei soggetti umani privilegiati. Non sono mancati e non mancano i tentativi di privilegiare romanticamente gli ultimi come potenziali liberatori del mondo, quelli in grado di capovolgere il mondo ed aprirlo a una radiosa alba di fratellanza universale. Non mancano mai quelli che si fanno sedurre dal primitivismo, che sono ammaliati dagli ultimi e soffrono di un male nostalgico del primitivo molto simile al “mal d’Africa”.
 
Ma le cose dell’animo e della società non seguono mai i canali di una meccanica sociale lineare simile alla meccanica celeste pre-relativistica. Gli ultimi, in una società della comunicazione, non sono affatto puri, non sono affatto liberi e assorbono l’episteme semplificata dell’avere che chiude alla complessità dell’essere. E l’insuccesso scolastico e formativo non apre a un mondo libero dalla schiavitù dei bisogni indotti, ma suggella col marchio dell’esclusione l’impossibilità di essere cittadino attivo insieme alla possibilità di essere un consumatore compulsivo di quanto il mercato offre e di quanto l’individuo può possedere con mezzi leciti o illeciti.
 
Rifondando città
C’è un altro modo di trattare coloro che sono ai confini che è intrinsecamente accogliente: dovete entrare perché insieme dobbiamo riscrivere le regole, dobbiamo costruire insieme un cerchio più largo, non dobbiamo fare spazio a nuovi cittadini ma costruire insieme nuova cittadinanza. Dunque Chance, occupandosi degli ultimi e degli esclusi non si è occupato di riammettere al banchetto dei consumi indotti quelli che non avevano i mezzi per farlo, ma si è occupato di restituire a giovani invasi insieme dal dolore e dalla coazione il potere della parola e del pensiero. Dunque da questo punto di osservazione ha potuto avere un punto di vista privilegiato su quel crogiuolo dove al calor bianco si rifonda una società, osservare da vicino i processi psichici, i modi di socializzazione che consentono a ciascuno di riprendere in mano il proprio destino, di passare dalla condizione di etero direzione a quella di autonomia, da quella di anomia sociale a quella di sociatività, come centri attivi di promozione di legami e di convivenza. Per realizzare questo obiettivo il Progetto Chance non ha usato una logica rivoluzionaria o una pedagogia alternativa. Non ha cercato di “capovolgere” le regole, né ha cercato un altrove pedagogico dove sperimentare nuove alchimie. Ha scelto di operare nei luoghi stessi dell’emarginazione, ha scelto di abitare i ghetti della città e dell’animo, di condividere l’esperienza degli ultimi per rielaborarla insieme a loro, per essere guide sicure ad uscire dai ghetti sociali e dalle prigioni dell’animo. Riuscire a utilizzare il pensiero e la parola in situazioni estreme, riuscire a mantenere il senso dell’impresa educativa quando il mondo intero ti crolla intorno, quando la violenza delle armi e la violenza dei consumi indotti svalutano continuamente la persona e la parola è la lezione di vita che noi abbiamo cercato di offrire ai nostri allievi, quella che ci rende stimabili ai loro occhi e legittimati a parlare. 
 
Maestri di strada quindi, maestri che insegnano la strada, guide per uscire fuori, per educarsi. 
 
Maestri che parlano nell’agorà, al mercato, come faceva Socrate che in piazza rispondeva a questioni di vita e di morte, rifletteva in pubblico sulla legittimità della vendetta di sangue e sulla necessità della legge. E per queste sue risposte, date fuori dal chiuso dell’accademia, fu condannato a morte. 
 
Oggi alle persone non viene offerta la cicuta ma esistono infiniti modi per intossicarsi, per uccidersi in senso professionale e pedagogico. A volte basta solo respirare a lungo un’atmosfera satura di veleni per restarci secchi. Dunque la nostra esistenza come educatori è ogni giorno a rischio e senza questo quotidiano rischio non saremmo veri educatori. Dunque dobbiamo essere felici di vivere nel rischio ma al tempo stesso sappiamo che è nostro dovere sopravvivere, dimostrare che sfidando il rischio è possibile crescere.
 
In questi undici anni l’esistenza di Chance è stata sistematicamente esposta a letture svalutanti ed avvelenate: è un progetto di recupero sociale, si occupa di disgraziati senza speranza, meno male che ci sono, che sono così masochisticamente eroici, chissà quale colpa stanno espiando… 
 
Così ad esempio Rulli e Petraglia, sceneggiatori de O’Professore – sceneggiato Mediaset che oscenamente pretende di rappresentare i maestri di strada – hanno dato corpo a questo fantasma: O’Professore è un sessantottino assassino che espia la sua colpa dedicandosi – in modo paternalista e collusivo – ai figli di quelli che erano i suoi nemici di un tempo. 
 
Anzi i “maestri di strada” in questa logica rispondono a un bisogno sociale di riparazione, una seconda occasione che non è data ai ragazzi ma ad una formazione sociale per riparare ferite che ha in precedenza inferto. E visti in questo modo siamo anche i testimoni di un delitto che i più vorrebbero occultare. Sulla base di questa emozione siamo stati tenuti ai margini, forse anche protetti, ma allo stesso modo in cui lo fanno i programmi di protezione per i testimoni scomodi: comunque vivi una vita nascosta
 
Una falla nel sistema di pensiero
Oppure siamo stati vissuti come se fossimo responsabili di una falla del sistema di pensiero in tutto analoga al “teorema di incompletezza” della matematica, una stranezza come l’esistenza dei numeri primi. La più perfetta delle scienze ha alla base una aporìa: esistono affermazioni vere non derivabili dagli assiomi; come dire che gli assiomi sono sempre incompleti, che esistono dei numeri primi che sfuggono alla regolarità delle serie. Un pensiero del genere leva il sonno a tutti i sistemisti (volevo dire proprio così), a quelli che hanno bisogno di un sistema che come pietra filosofale trasforma ogni problema in una eventualità prevedibile sulla base degli assiomi condivisi. Il fango trasmutato in oro. 
 
“Perdete tempo, il vero problema è la prevenzione, è fare le cose rispettando gli assiomi pedagogici giusti e tutto andrà a posto in automatico” (e questo è il motivo ideologico per cui ministri e sottosegretari di sinistra sono stati incapaci di dare un assetto istituzionale al progetto). Dunque il Progetto Chance ha costituito una irregolarità epistemica disturbante e come tale rigettata in periferia, stigmatizzata non per motivi socio-politici, ma per incompatibilità filosofica.
 
Qualsiasi sia il punto di vista siamo stati periferici, marginali, esclusi dalle pratiche ordinariamente praticabili. 
 
Professionisti riflessivi
Sennonché, siccome sappiamo parlare e scrivere, siccome abbiamo fatto della professionalità riflessiva una bandiera del progetto, in questi anni ci siamo procurati molti amici che, forse per sano istinto da educatori, forse per simpatia umana, ci hanno ascoltato e seguito e spesso ci hanno aiutato a inquadrare le nostre pratiche in modelli teorici e tendenze riconoscibili dalla comunità scientifica. Se il progetto ha resistito per undici anni molto è dovuto al modo in cui l’accademia in vari modi ci ha sostenuto. 
 
Ieri, mentre si svolgeva la prima giornata di questo convegno, mentre cadeva il ventesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’infanzia, è stato approvato il primo atto ufficiale che rende Chance una risorsa in qualche modo ordinaria incorporandola in dodici scuole di Napoli e della Provincia situate in zone strategiche dell’esclusione. 
 
Si tratta di una felice coincidenza. Ma il fatto che si tratti di una coincidenza e non di un appuntamento segnala un problema. Nel momento in cui il progetto grazie alla Regione Campania (ma orfano dei precedenti apporti del Comune di Napoli, del MIUR e di altre istituzioni che facevano parte dell’accordo di programma del 1998) diventa “normale” può diventare oggetto di una normalizzazione (ricordate la normalizzazione dei carri armati a Praga?) – involontaria o vendicativa – che ne distrugge la carica trasformativa, le potenzialità di crescita per l’intera scuola. 
Noi siamo convinti che il Progetto Chance possa aiutare una riflessione generale sulle pratiche educative per la cittadinanza che deve coinvolgere la scuola e non solo la scuola, e chiediamo a quelli di voi che potranno farlo un aiuto a mantenere questo senso al progetto. Un aiuto che per tutto quello che si è detto deve essere soprattutto un aiuto di pensiero, un contributo a convalidare un modello di lavoro sulla base di osservazioni, riflessioni, prove. È giunto il momento di trasformare la solidarietà umana in prese di posizione basate sui principi pedagogici (che sono quelli che stanno circolando in questa sala) che devono governare la trasformazione istituzionale di questo progetto. 
 
Un progetto che esalta le pratiche umili ma ricco di dettagli importanti
Chance, come si ripete, non ha da rivendicare alcuna originalità, primogenitura pedagogica o didattica, ma ha da rivendicare con orgoglio la determinazione e la coerenza con cui ha valorizzato le pratiche umili, i dettagli per altri insignificanti. 
Il progetto Chance è stato e deve restare un progetto di cura – della giovane persona in crescita, delle persone che si impegnano al loro fianco – in cui le relazioni primarie fondanti della convivenza sono coltivate fuori dai sentimentalismi e dalle retoriche con un solido impianto organizzativo che consente di gestire la complessità, conservando e valorizzando le risorse umane e professionali. Questa resta la principale forza del progetto e la sua possibilità – chance – di influire sulla trasformazione di tutte le pratiche educative.
Quello che ci auguriamo è di poter valorizzare questo patrimonio che rischia – principalmente per le debolezze umane da cui tutti siamo affetti – di naufragare in una navigazione che si fa sempre più complessa.
 
 
 
Bio dell’autore: Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.

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