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Traiettorie sociologiche. Colei che sussurra nel buio

Lunedì 14 dicembre, ore 18.00, Libreria Ubik, Via Benedetto Croce 28, Napoli
 
 
Nel classico della letteratura fantastica del primo Ottocento tedesco, La storia straordinaria di Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso (1992 Garzanti, Milano), si narra di come un giovane povero, avendo ceduto la sua ombra al diavolo in cambio di una borsa piena di monete d’oro che non si svuota mai, si condanni da solo all’infelicità: la mancanza dell’ombra lo trasforma in un paria, rifiutato e allontanato da tutti. Una prima lettura ci dice che sì, in effetti, siamo inseparabili dalla nostra ombra: se non la proiettiamo, vuol dire che non esistiamo, se non nell’immaginazione di chi crede di vederci. Come fantasmi, come vampiri. A questa interpretazione potremmo dire referenziale del racconto rapidamente se ne sono aggiunte altre, e l’ombra che Chamisso sottrae a Peter è stata riconosciuta come uno dei tanti volti che la figura del doppio assume nella narrativa. L’altra parte di noi, oscura e nascosta, eppure necessaria, implicita nella nostra esistenza.
 
Ma ci sono altre ombre che ci accompagnano durante il nostro percorso secolare. C’è quella proiettata da una figura a noi vicinissima da sempre, ma che appare a volte distante, straniera: “Padri e figli […] la natura … pretende l’edificazione di una distanza di sicurezza, alimentata dalla presenza di una sorta di sospetto, un senso di colpa reciproco che si rinnova attraverso i pretesti più incomprensibili, con il trascorrere degli anni” (Pecchinenda 2009).
 
Questa affermazione, se si vuole crepuscolare, dolente, coglie un punto cruciale. Coglie il luogo dove si separano, nella società moderna, sostanza affettiva ed espressione dell’affetto. Perché la distanza di cui scrive Gianfranco Pecchinenda – retaggio di tracciati “educativi” tradizionali, che la modernità non ha abolito – finisce per autoalimentarsi, per nutrirsi prima di tutto di imbarazzi, di silenzi, di interdetti, che ribadiscono la distanza, in una sorta di complicità – forse, alla fine, realizzando una comunicazione più profonda, magari solo sperata, fatta di interpretazioni di gesti, di sguardi, di espressioni, in un codice muto dato per condiviso dai due interlocutori ognuno per suo conto – a tentare di tacitare quel sospetto e quel senso di colpa. E rimanda la manifestazione degli affetti solo ai momenti fatali dell’esistenza.
 
Espressione del legame affettivo che quindi si risolve solo dopo che quell’ombra non ci accompagna più, sostituita da un’altra, ben più possente e maestosa, eterna, universale. Quella della Morte.
 
Ed è solo dopo che questo evento si è manifestato che, col tempo, riusciamo a ritornare al passato, ai ricordi, a riconoscere in noi gesti, atteggiamenti, modi che erano di un altro – così presente, a volte incombente, e nello stesso tempo altrettanto lontano – nella nostra vita precedente, quella di figlio: “Quando però il padre finisce, la comunicazione – lo si voglia o meno – viene riattivata” (ibidem, p. 10).
 
Come in L’Ombra ineludibile (ibidem, pp. 27-62), in cui la visita alla tomba dello zio in un cimitero in compagnia del padre si trasforma in un viaggio nel proprio passato e contemporaneamente in un presente sospeso, labirintico come i vialetti silenziosi che corrono fra le lapidi, mentre si percepisce in sottofondo l’eco di altre narrazioni – dalla Gradiva di Wilhel Jensen (Jensen, 1977) a Il sogno degli eroi di Adolfo Bioy Casares (2003) – in cui la dimensione forse onirica, forse ancor più trascendente si affaccia discretamente, piano piano, e rimane sospesa, lasciando nel dubbio il lettore su quale sia la condizione circolare, spiraliforme, in cui si trovano padre, figlio, zio. Solo l’Ombra assoluta, quella che accompagna paziente il cammino di tutti noi, in attesa del Suo momento, è sicuramente lì, in questo caso.
 
Con il narratore che racconta al passato, facendoci immaginare – perplessi – la sua presenza attuale nel mondo, infrangendo solo in questo la regola del racconto fantastico, che si vuole sempre srotolarsi rigorosamente al presente (Todorov, 2000). Sin dall’inizio, tutto si svolge in silenzio. La comunicazione fra padre e figlio – anzi, dal padre al figlio – non ha bisogno di suoni, di frasi. Bastano i gesti, antichi, consueti, evidenti. Il figlio capisce, intimidito come sempre, muto, per rispetto e soggezione, come si conviene alla situazione – che appare sempre più essere particolarmente solenne. Come un ricongiungimento, o uno scambio. Fino alla perdita del senso del tempo, della vista del padre – motivo di preoccupazione, paura, per l’età del genitore, ma anche per il ricordo del terrore di essere stati abbandonati che riemerge da un lontano passato infantile, da un episodio antico, simile a quello che tutti, almeno una volta, abbiamo provato, per un ritardo, per un contrattempo dell’adulto cui eravamo affidati. A ribadire il sentimento dell’asimmetria della relazione padre/figlio, anche quando è ormai sepolta in profondità perché la situazione di accudimento e cura si è ribaltata.
 
Come in Lo sguardo (Pecchinenda, pp. 63-75), terribile descrizione degli ultimi giorni di un padre, narrata dal suo punto di vista. Quello di un uomo che ormai è solo quasi il suo sguardo, e la sua consapevolezza, che assiste inerme e rassegnato alle cure routinarie e ormai stanche della figlia con cui gli viene – si spera – addolcita la sofferenza dell’inabilità, dell’esito logico della nostra mortalità che gli si avvicina. E quindi della sua stanchezza, della sua impazienza nei confronti di un termine che tarda a venire. Mentre i vivi intorno a lui possiamo immaginarceli discutere su di cosa stia morendo, incapaci di accettare la naturalità dell’evento. “Non sentiamo di gente che muore di mortalità”, scrive benissimo Zygmunt Bauman (1995, p. 182). Quasi il reciproco drammatico del bellissimo racconto lungo di Ol’ga Slavnikova L’immortale (2001), in cui si narra di un eroe dell’Armata Rossa cui la figlia e la moglie, che dipendono dalla sua pensione, proiettano falsi telegiornali per non fargli scoprire (sicure che sia cosciente) che l’Unione Sovietica si è dissolta, per paura che muoia di crepacuore…
 
Qui la forza del racconto sta nell’immaginarsi lo stare dall’altra parte, nella condizione muta del morente, descrivendone i pensieri, i sentimenti, mentre nascono e si articolano, ricordando la presenza incombente, minacciosa, assoluta del proprio padre. Anche in questo racconto niente suoni, niente parole scambiate fra gli attori. Non sono necessarie, oltre che essere impossibili da pronunciare. Solo i soliloqui silenziosi del protagonista, i suoi ricordi, la consapevolezza della sua inadeguatezza a replicare e così rispettare l’immagine del padre con i propri figli. La sensazione di non aver adempiuto ad un compito, di non aver rispettato una consegna. Anche in questo racconto, l’impossibilità di liberarsi di un’ombra ingombrante, formidabile. In attesa di essere oscurati dall’Ombra immortale della mortalità.
 
La letteratura è piena di romanzi in cui viene messa in scena esattamente questa distanza abissale fra padri e figli. Nel passato era istituzionalizzata, funzionale forse, nella percezione comune, ad una educazione coerente, lascito feudale silenziosamente accolto dalla modernità. Ma che performava una differenza abissale, incolmabile. Il caso Mauritius di Jakob Wassermann (1965) narra di un figlio che per liberarsi del padre, giudice di tribunale e uomo di nobile casato, gelido come genitore quanto tirannico come capofamiglia, non può che ribellarsi scappando di casa e costringendolo a riaprire un caso di diciotto anni prima, in cui la sua presunzione e arroganza lo aveva condotto a condannare a vita un innocente. Distruggendo così la sua sicurezza e la sua alterigia. Un romanzo cupo, oscuro, calustrofobico, come le stanze del palazzo del giudice. Radicale, naturalmente, nel mettere in scena una situazione estrema, adatta ad un melodramma primo-novecentesco.
 
All’altro estremo La pampa verticale (Pecchinenda, pp. 15-27), quasi una riscrittura del Diario della guerra al maiale, sempre di Bioy Casares (2007), che rovescia il plot del romanzo traducendolo nel desiderio di non deludere il proprio padre. La cosa può avere implicazioni terribili. Dove nella narrazione dello scrittore argentino è la crudeltà a muovere i giovani, in Pecchinenda si traduce nell’assolvere ad un compito definitivo, terminale, che consiste nel liberare dalla sofferenza di una vita divenuta insopportabile prima lui, poi la madre, cambiando identità, morendo a propria volta per difendersi dalle conseguenze di una promessa considerata sacrale, ancestrale – le sanzioni che la morale e la legge umana imporrebbero. Trasferendosi da un paese ad un altro. Rinascendo quindi, sotto nuove spoglie, e sperando che il proprio figlio sia altrettanto fedele alla consegna, quando toccherà a lui, innescando una circolarità interminabile, in un continuo susseguirsi di nascite e di morti… In questo caso, è davvero l’ombra più lunga, quella che proiettiamo muovendoci, lunga come tre vite, capace di valicare l’oceano fra il vecchio, il nuovo, ancora il vecchio continente.
 
Tre racconti che declinano in vario modo un tema che forse la sociologia – almeno quella classica – ha trascurato. L’attenzione è stata posta più sul ruolo espressivo della madre, relegando il padre ad un ruolo strumentale, che si svolgeva prima di tutto all’esterno, al lavoro, comunicando quella distanza di cui scrive Pecchinenda. Ma l’intreccio fra figura del padre, memoria, oblìo, Morte incombe sempre di più sulla tarda modernità. E lo si può affrontare in vario modo. Qui sociologia e narrativa si fondono ancora una volta.
 
In un’intervista concessa a chi scrive, Zygmunt Bauman riflette sul fatto che “Il rapporto tra le arti e la sociologia si basa sulla piena cooperazione, il reciproco feedback e la rispettiva ispirazione, e nel peggiore dei casi su una fraterna rivalità… Personalmente, ho appreso molto più circa i Lebenswelten umani da Calvino, Kafka, Borges, Musil o Perec (solo per citarne alcuni) che da centinaia di studi di numerosi e rispettabili sociologi. Non essendo come noi, sociologi, costretti alle regole del mondo accademico e alle pratiche vincolanti attuali, gli artisti della penna o del pennello sono nella posizione migliore per osservare, individuare ed annunciare qualcosa di nuovo e senza precedenti nella percezione umana del mondo e suggerire revisioni che all’interno del mondo accademico sarebbero definite come non sufficientemente «realistiche», e forse eretiche…” (Fattori, 2008).
Sempre Bauman scrive “Gli esseri umani sono le sole creature che non solo sanno, ma sanno anche di sapere – e […] non possono «dismettere» la conoscenza della propria mortalità […] Una volta appresa, la conoscenza dell’ineluttabilità della morte non può essere dimenticata […] Si potrebbe dire che la cultura, un’altra qualità «esclusivamente umana» è stata fin dall’inizio uno strumento per realizzare tale soppressione.” (cit., 1995, pp. 10-11).
 
La nostra morte, la morte dell’altro. Questo è il tema profondo, abissale, dei tre racconti di cui scriviamo. Facciamo i conti con questa consapevolezza, quotidianamente, più o meno consapevolmente. Ogni tanto intravvediamo quest’Ombra che ci cammina al fianco aspettare in agguato, con pazienza, di piazzare il suo scacco matto alla presunzione e all’orgoglio della Modernità. E, a volte, sentiamo una voce che ci sussurra nel buio della notte, all’orecchio, parole in una lingua che non conosciamo, ma che, quando verrà il momento, comprenderemo appieno. Solo che non potremo tornare a riferirne il senso.
 
“…la supposta inesistenza susseguente alla morte [...] se un giorno cessassimo di esistere... non lo sapremmo mai, non è vero? (Fernandez, 1974, p. 111).
 
* su facebook è attivo un gruppo di discussione sui temi dell’articolo, “l’ombra che cammina”:
 
Bibliografia
Bauman Z., IL teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna, 1995.
Bioy Casares A., Il sogno degli eroi, Bompiani, Milano, 2003.
Bioy Casares A., Diario della guerra al maiale, Cavallo di ferro, Roma, 2007.
von Chamisso A., La storia straordinaria di Peter Schlemihl, Garzanti, Milano, 1992.
Fattori A., Zygmunt Bauman: questa società liquida… l’uomo, in “Quaderni d’Altri Tempi” 11/2008, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero11/04letture/letture11_conv.htm
Fernandez M., La materia del nulla, Franco Maria Ricci, Parma, Milano, 1974.
Galofaro F., Etica della ricerca medica ed indentità culturale europea, CLUEB, Bologna, 2009.
Gamba F., Il gioco e il tabù, Ipermedium, S. Maria C.V., 2007.
Jensen W., Gradiva, in Freud S., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. 2, Boringhieri, Torino, 1977.
Micalizzi A., I morti viventi nei ricordi custoditi dal web, in “Quaderni d’Altri Tempi” 17/2008,
Pecchinenda G., L’ombra più lunga Tre racconti sul padre, Colonnese, Napoli, 2009.
Slavnikova O., L’immortale, Einaudi, Torino, 2001.
Todorov T., La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 2000.
Wassermann J., Il caso Mauritius, Dall’Oglio, Milano, 1965.

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