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Quella joint venture della mia fanciullezza

La locuzione sostantivale “joint venture”, mutuata, al pari di tante altre, dalla terminologia inglese, ma ormai divenuta di uso comune in tutto il mondo, dà, di primo acchito, l’impressione di qualcosa di complicato, difficile.

Invece, come è noto, tradotta in italiano, può significare, anche e semplicemente, alleanza, collaborazione.

Ad ogni modo, vocabolo a parte, nella specifica fattispecie è il caso di osservare che gli amici anglo sassoni non hanno scoperto proprio alcunché di originale.

I miei nonni materni, i quali vivevano insieme con i sei figli in una modesta abitazione a piano rialzato, fino a quando non sono divenuti vecchi o inabili, hanno sempre allevato una capretta, che, di giorno, conducevano immancabilmente al libero pascolo nei loro fondicelli, tenendola poi, la sera e durante la notte, ricoverata in un angolo della cantina a livello interrato.

Una compagnia, fissa e costante, per la famiglia, dunque, il mite ovino, e, in più, una fonte di esigui guadagni a beneficio del magro bilancio domestico.

A proposito del contributo dell’animale in termini di utilità, serbo nitido, sebbene siano trascorsi circa sessanta anni, un particolare ricordo.

Dalla mungitura della capretta, la nonna Lucia ricavava quotidianamente un quantitativo di latte assai modesto, assolutamente insufficiente per mettersi a trasformarlo in formaggio. E però, la brava donna rimediava alla limitata “produzione propria”, mediante un accorgimento concordato con le famiglie del vicinato, anch’esse proprietarie di un ovino per ciascuna.

Un determinato giorno, gli allevatori, praticamente consorziatisi sulla parola, erano chiamati a conferire le rispettive produzioni, in blocco, alla famiglia X, il giorno seguente ad un’altra e così via. Presso ciascun nucleo, veniva così a concentrarsi, ogni volta, un’apprezzabile raccolta di bianco liquido, bastante per ricavarne, attraverso una lenta operazione di bollitura e con l’ausilio del caglio naturale, una piccola forma di formaggio.

Ho ancora davanti agli occhi la semplice perizia, la cura, con cui la nonna Lucia girava e rigirava, quasi accarezzandola, la ricotta, tirandola man mano su e sistemandola in una fiscella di vimini che, alla fine, veniva deposta, con un rito quasi sacro, sull’alta scansia sporgente da una parete, per il processo di essiccazione e stagionatura.

Nonostante la lontananza temporale, dentro di me riecheggia finanche il sapore di quel prodotto casalingo, che aveva per catena di montaggio la mungitura della capretta, la bollitura del latte nella pentola sul fuoco di legna, la maturazione del semilavorato sulla scansia.

Un’ultima notazione: quando ricorreva il turno della nonna Lucia, noi nipotini eravamo direttamente interessati al processo lavorativo, giacché, dopo il prelievo della ricotta “buona” per il formaggio, nella pentola restava un residuo liquido di colore giallo (siero, nel nostro dialetto “seru”) con piccoli grumi bianchi (in gergo, “minora”), che ci spartivamo nei nostri minuscoli bicchieri d’alluminio, per intingervi e bagnare la frisella della prima colazione.

Insomma, cosa sarà mai una joint venture! Ne esisteva ed era attiva una, già a metà del secolo scorso, a Marittima, in Via Convento.

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