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Più merito e meno sprechi: la riforma dell’Università

 

 In tempi di profonde crisi ideologiche è difficile distinguere i “rivoluzionari” dai “conservatori”, due categorie divenute negli ultimi anni interscambiabili.

Può accadere dunque che il cambiamento provenga da una forza politica per tradizione più conservatrice, come il centrodestra, e l’atteggiamento “reazionario” da frange sempre più minoritarie “di sinistra”.

La riforma dell’Università che porta la firma del Ministro dell’Istruzione Gelmini può essere modificabile, come avverrà con la necessaria discussione in Parlamento, ma è ridicolo che a pochi minuti dall’approvazione del ddl, l’Unione degli universitari (Udu), organizzazione di sinistra, abbia proclamato subito la mobilitazione, ed il responsabile Scuola del Pdci ripeta la solita solfa “il governo è contro l’università pubblica”…

Persino i ragazzi dell’Onda hanno atteso almeno una settimana per pronunciarsi e la Conferenza dei rettori (Crui) si è riunita solo mercoledì per un esame approfondito della riforma.

Ma loro, gli studenti “de sinistra”, avevano già fissato i paletti, il no preventivo, il rifiuto a prescindere.

Per chi invece voglia analizzare con serenità e senza pregiudizi il nuovo testo proposto dal ministro Gelmini troverà una serie di elementi davvero interessanti e per certi aspetti utili a riformare per il meglio l’università italiana.

Ci sono le norme così dette anti-baroni, come il limite massimo del mandato del rettore fissato a 8 anni, oppure l’obbligo per i docenti di presentarsi negli orari di ricevimento e non delegare, come si fa troppo spesso, ai soli assistenti. L’impegno per i professori sarà stabilito in 1.500 ore annue di cui almeno 350 destinate alla docenza ed al servizio degli studenti.

Gli scatti di carriera inoltre saranno triennali e non più biennali, basati però sulla valutazione del merito e delle capacità professionali e non più solo dell’anzianità, stimolando così il miglioramento della qualità della didattica e della produzione tecnico-scientifica.

Un’altra innovazione importante è il sostanzioso aumento dello stipendio base per i professori appena assunti, che dagli attuali 1.300 salirà a 2.100 euro, accompagnato dall’abbassamento dell’età minima per entrare di ruolo in università, dai 36 ai 30, che contribuirà non poco a svecchiare il sistema attuale.

Novità anche per gli studenti, che potranno “votare” i loro professori, sulla base di questionari che non saranno più sottoposti al solo giudizio interno del Nucleo di Valutazione dell’Ateneo, come applicato fino ad ora, ma resi disponibili all’esterno e determineranno i criteri di distribuzione delle risorse statali.

L’impegno della riforma è inoltre indirizzato alla creazione di un fondo speciale nazionale per gli studenti più meritevoli, con borse e buoni studio per la copertura delle spese di mantenimento. Infine saranno garantiti qualità standard minimi a livello nazionale per le mense e la casa dello studente.

La riforma del ministro Gelmini contiene numerosi spunti positivi e proposte concrete che puntano ad una migliore efficienza del sistema Università, premiano il merito, riducono gli sprechi e possono contribuire ad un cambio di rotta fondamentale e troppo spesso invocato solo a parole.

Resta da vedere se l’Italia è ancora un paese che si può “riformare” o se per l’ennesima volta caste e castine nostrane bloccheranno qualsiasi ipotesi di cambiamento, come già succede da parte di chi organizza manifestazioni pubbliche senza neanche attendere la normale conclusione dell’iter legislativo. 

E’ spiacevole infine constatare il "plagio" che molti studenti, spesso a loro insaputa, subiscono da una classe di docenti che con la motivazione di facciata della difesa dei loro diritti e dell’istruzione pubblica, in realtà mira solo a tutelare i propri privilegi e le rendite di posizione.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.153) 8 novembre 2009 20:12

    ok pur non essendomi particolarmente simpatico il Ministro devo ammettere che la riforma sembrerebbe più di sinistra che di destra. Molte cose bisogna cambiare a livello universitario e questo è un tentativo abbastanza riuscito

  • Di malatempora (---.---.---.47) 9 novembre 2009 18:29

    A volte certi articoli per la loro superficialità, fanno davvero irritare, se poi a ciò si aggiunge anche l’idea che una cosidetta frangia di sinistra(sic!) voglia boicottare pseudoriforme che vengono spacciate per rivoluzionarie.
    Allego a tal proposito un articolo tratto da Il manifesto del "9-10-2009 di Gigi Roggero che rende bene di cosa si voglia fare della nostra università. L’articolo è un po’ lungo ma servirà a schiarire le idee a molti.

    Chi volesse intraprendere la certo non avvincente lettura del gelminiano "Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio" presentato ieri può tranquillamente cominciare dalla fine: «Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Ecco la cosa importante: la strategia del governo consiste in tagli e dismissione, punto e basta. A partire da qui, si possono leggere a cuor leggero le trenta cavillose e confuse pagine del Ddl certi di averne afferrato il senso. Non è un caso, del resto, che nonostante si premetta che ogniqualvolta si parli di "Ministero" ci si riferisca a quello dell’istruzione, mentre in realtà l’altro Ministero - dell’economia e delle finanze - è citato in ugual misura a proposito delle questioni di centrale rilevanza.
    Il Ddl è suddiviso in tre parti: governance, meritocrazia, personale accademico. È un progetto di aziendalizzazione dell’università, potrebbe dire qualcuno. Preferiamo però non concedere con troppa facilità all’avversario la perversa dignità di una parola che - per accordarci subito con il leit motiv del testo - non "meritano", né per intelligenza né per coraggio strategico. Vediamo infatti in cosa consiste la via italiana all’aziendalizzazione, da tempo sognata dagli algidi ideologi della Bocconi e del Corriere della Sera.
    Da sempre, si sa, le imprese italiane hanno avuto un ruolo parassitario rispetto al sistema formativo, succhiando forza lavoro istruita e non versando una lira prima e un euro poi; i baroni, dal canto loro, hanno potuto riprodurre privilegi e posizioni di rendita, affidate loro dallo Stato. Questo Ddl cerca forse di modificare il ruolo del privato-parassita e scalfire le rendite di posizione del pubblico-feudale? Niente affatto. Anzi, rafforza entrambi. Da un lato, garantisce alle aziende la condizione migliore per continuare a succhiare indisturbate senza investimento e senza rischio. L’articolo 2, che disegna «organi e articolazione delle università», attribuisce maggior peso decisionale al consiglio di amministrazione, che deve essere composto da «personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello», con una «non appartenenza di almeno il quaranta per cento dei consiglieri ai ruoli dell’ateneo a decorrere dai tre anni precedenti alla designazione e per tutta la durata dell’incarico» (lettera g). Insomma, il piccolo o medio imprenditore del Nord-est, iperspecializzato nella produzione di un pezzo ultraspecifico nella filiera globale dell’occhiale o dello scarpone da montagna, che sfrutta ad alta intensità forza lavoro a bassa scolarizzazione o pagata come tale anche quando non lo è (i migranti), non verserà certo soldi nelle esangui casse degli atenei. In compenso, potrebbe però condizionarne la politica e le scelte: se nel brevissimo periodo servono tecnici specializzati in un campo di cui si fa fatica perfino a pronunciare il nome, perché non aprire un corso di laurea a veloce obsolescenza finché il mercato non sarà saturo e tagliare inutili e costosi dipartimenti, che non servono nemmeno a sfornare un operaio specializzato?
    I baroni, dal canto loro, possono rallegrarsi delle «norme in materia di personale accademico e riordino della disciplina concernente il reclutamento». L’istituzione dell’«abilitazione scientifica nazionale» per i docenti di prima e seconda fascia, di durata quadriennale, è decisa da una commissione nazionale formata mediante sorteggio tra professori ordinari. Ciò che viene fatta passare per una norma che scavalca le lobby accademiche locali, non solo lascia l’«abilitazione» nelle mani delle cricche degli ordinari a livello nazionale, ma poche pagine più avanti (articolo 9, comma 2, lettera c) fa rientrare dalla finestra ciò che era apparentemente uscito dalla porta. La decisione finale, infatti, spetta alle commissioni locali composte da ordinari e, nel caso dei ricercatori, da alcuni associati. Il posto da ricercatore, poi, come già stabilito dalla legge Moratti nel 2005 è posto in esaurimento, quindi sostituito da contratti di soli tre anni rinnovabili - previa valutazione - un’unica volta, aumentando così la ricattabilità dei ricercatori stessi nel vincolo individuale con il docente di potere. Inutile dire che la frase «senza oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica» ricorre, in questi articoli come in tutto il testo, in modo ossessivo come premessa e sostanza. Non solo: se non ci sono adeguate risorse, professori e ricercatori possono essere «collocati a riposo». Amen.
    In questo quadro di governance di un’università abbandonata alla sua inerziale rovina, gli studenti devono essere resi complici della nave che affonda: i loro «rappresentanti» vengono quindi «integrati» come stakeholder (del fallimento), ovviamente subalterni e privi di potere decisionale. Non solo: di fronte alla «razionalizzazione» dei fondi (forma elegantemente manageriale per definire la mannaia che, brandita dai consigli di amministrazione, si abbatte sulle risorse residue del sistema formativo), gli studenti devono dimostrarsi «meritevoli». Ciò garantisce l’accesso ai prestiti d’onore, nome curioso con cui si etichetta quel sistema del debito che, fallito negli Usa, è alla radice della crisi contemporanea. Ma è il Ministero (quello dell’economia e delle finanze, prima ancora di quello dell’istruzione, dell’università e della ricerca), attraverso il "Fondo speciale per il merito finalizzato a sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti, individuati tramite prove nazionali standard", a disciplinare i ferrei criteri per avere accesso al prestito. Insomma, ci sono molte più possibilità con "Win for Life"!
    Vorremmo a questo punto poterci dedicare a dimostrare come il lessico della meritocrazia sia la mistificante retorica che rovescia la realtà del declassamento e della precarietà nelle illusioni giustizialiste di un mitologico mercato non corrotto e di una competizione moralmente pulita. Purtroppo dobbiamo partire da molto più indietro, dicendo che la meritocrazia (come le riforme) non si fa a costo zero: il caso americano e i miliardi di dollari pubblici e privati investiti nelle università sono un noto esempio. In Italia va innanzitutto evidenziato che la meritocrazia, prima ancora di tutto il resto che si può dire su di essa, funziona al contrario, ovvero è ciò che giustifica i tagli. Anziché essere un (peraltro discutibile) premio per pochi, significa peggioramento delle condizioni di vita e dequalificazione del sapere per tutti. Al limite, stabilisce una gerarchia per vedere a chi andrà molto male e a chi meno. Prendiamo i cosiddetti percorsi di "eccellenza". Negli Stati Uniti sono delle classi riservate alle élite in cui gli studenti vengono a contatto con lo star system dell’università globale. In Italia si rinomina il vecchio corso di laurea come percorso di eccellenza, recintandone l’accesso, e si abbassa ulteriormente la già scarsa qualità dei restanti piani di studio, che sono resi ancor più rigidi e insulsi. La "meritocrazia" è così utilizzata per scaricare sugli studenti la mancanza di qualità dei docenti.
    Solo che si pone ora la questione: come si ripiana il debito? Con corsi aggiuntivi, che peserebbero sulle già dissestate casse dell’ateneo? O esigendo un numero maggiore di crediti di quello previsto, allungando così i tempi della laurea triennale, procurando costi aggiuntivi e mandando ulteriormente in fumo il già svanito obiettivo della riforma del 3+2, cioè l’eliminazione del "fuoricorsismo"? Nessuno sa rispondere. Nel frattempo, però, lo studente - con o senza "merito" - deve essere formato ad essere precario indebitato. E la crisi dell’università, così dice il coro unanime da via Solferino a viale Trastevere, passando per senati accademici e consigli di amministrazione, la paghino gli studenti attraverso l’aumento delle tasse. Noi che la combattiamo sappiamo che l’aziendalizzazione è una cosa seria. In attesa di trovare un nemico all’altezza, diciamo con chiarezza che questa riforma dell’università si chiama, banalmente, truffa.

  • Di Elia Banelli (---.---.---.98) 13 novembre 2009 14:06
    Elia Banelli

    Il commento di Malatempora, puntuale e preciso, soffrè però a mio avviso di quel "conservatorismo" che proprio aleggia in troppe fasce della popolazione accademica, seppur preparata e competente.

    Per primo punto non si è risposto nel merito agli aspetti positivi della riforma, citati in sinstesi nell’articolo, che quindi rimangono tali, positivi. 
    Secondo punto, io che sono laureato e ho frequentato l’università al suo interno (corsi, esami, laboratori, ecc....) ho ben chiaro e visibile, come molti colleghi, i problemi gravi che affliggono i nostri istituti accademici, i disastri compiuti dal 3+2 (riforma se non sbaglio varata dal centro-sinistra e ratificata dalla Moratti) sulla moltiplicazione di corsi e moduli simili tra loro ma "differenti" solo nei nomi, tutto per moltiplicare a dismisura docenti a contratto esterni alla facoltà (quanti giornalisti e mezzi busti televisivi ad esempio hanno arrotondato lo stipendio?) e numero di testi da comprare (ovviamente scritti dagli stessi docenti del corso).
    Quindi si parte da una doverosa premesse, che è una domanda: l’università italiana come è stata gestita fino ad ora funziona bene oppure no? Se la risposta è negativa, allora è doveroso attuare una riforma.
    La riforma Gelmini massimizza ed elimina molti corsi inutili e la frase "senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica" mi sembra doverosa in situazioni di forte deficit dello stato e di casse pubbliche allo sbando (di qui il ruolo fondamentale del ministero dell’economia nell’erogazione dei fondi). Soprattutto in Italia dove gli sprechi abbondano, e non solo ovviamente all’università. 
    Inoltre nel commento ci sono molti pregiudizi, sul ruolo del Corriere della Sera e della Bocconi, quasi come fossero soggetti non idonei a proferir parola sulla riforma o a richiedere urgenti cambiamenti. C’è anche un forte pregiudizio sul ruolo delle imprese, evidenziate come sanguisughe che spremono i laureati e non danno risorse all’università.
    Quanto di più lontano dalla realtà, se consideriamo che in Italia esistono molte università private, gestite e finanziate dalle aziende, tra le quali la Luiss di Roma che è proprietà di Confindustria, e tante altre. 
    Le imprese, grandi-medie e piccole, hanno tutto l’interesse ad accogliere laureati competenti e di qualità. Questa visione delle imprese "malvagie" è, a mio modesto parere, frutto dell’ennesimo pregiudizio, di stampo conservatore, che non vuole il cambiamento e pretende che nulla si tocchi ma tutto resti com’è, o peggio di una certa sinistra (chiamiamola pure Topo Gigio) che vede ancora nelle aziende e nel mercato i diavoli che tutto corrompono e sfruttano. 
    Il problema dell’Università è serio e va risolto davvero, soprattutto devono essere eliminati gli sprechi ed i corsi di laurea inutili. L’Italia è se non vado errato il secondo paese manufatturiero d’europa, che cosa ce ne facciamo di 20.000 laureati in Scienze della Comunicazione? 
    O di lauree in antropologia e filosofia, che per carità sono utilissime per chi vuole intraprendere la docenza e per una fondamentale cultura personale, ma che sono quasi inutili per il mercato del lavoro? Quanti laureati in Filosofia sono a spasso o cercano lavoro come "addetti alla gestione del personale" nelle grandi aziende? C’era bisogno di scomodare Socrate, Eraclito e Talete per valutare un colloquio di lavoro???
    Identificare chi vuole riformare l’Università italiana come "un nemico" che "deve essere combattuto" (il senso del commento di malatempora) mi fa davvero pensare che la Gelmini abbia imboccato la strada giusta. 

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