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Perché Brunetta ha (in parte) ragione

Dell’intervista di Renato Brunetta a Fausto Carioti è rimasto l’abituale frastuono delle ondate di sdegno, questa volta contro l’affermazione del ministro riguardo l’articolo 1 della Costituzione. A noi non è chiaro perché la frase “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” non significhi nulla. Il significato resta, una volta attualizzato nel senso di sfrondarlo della connotazione classista che poteva originariamente avere. “Lavoro” è quello dei dipendenti, degli autonomi, dei professionisti, degli imprenditori. L’articolo 1 è, o dovrebbe essere, una sorta di “vetrina” della Carta.

Poi si può discutere di merito, concorrenza e mercato, ma tra avere questi principi scolpiti in costituzione e regolarmente disapplicati nella quotidianità (come di solito accade), e qualche buona legge ordinaria per promuovere competizione e merito, la scelta dovrebbe essere scontata. Ben più interessante è il resto dell’intervista, in particolare il passaggio in cui Brunetta segnala che occorre rivedere anche il ruolo di partiti e sindacati nella società italiana:

«Perché gli articoli 39 e 49 della Costituzione, che riguardano i sindacati e i partiti, non sono mai stati seguiti da leggi. E quindi bisogna intervenire sia sulla Costituzione sia sulle leggi»

Entrambi gli articoli sono disapplicati, da sempre. La mancata attuazione del 39 da sempre esercita forti impatti sulla contrattazione collettiva, oltre che consentire una confortevole rendita di posizione a quelli che dovrebbero essere sindacati maggiormente rappresentativi pro-tempore, cristallizzandone invece il “potere di mercato” sulle altre sigle sindacali. L’articolo 49 invece recita:

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

In questo articolo, è fondamentale l’espressione “metodo democratico”, cioè la presenza di un’organizzazione partitica che preveda pratiche democratiche di scelta dei rappresentanti da inviare agli organismi elettivi nazionali e locali. Si ha l’impressione che anche il 49 sia esclusivamente un enunciato di principio: se un partito non è organizzato “democraticamente” (ammesso e non concesso di conoscere in cosa questo principio possa operativamente tradursi), ma nondimeno vi sono persone che scelgono di associarsi liberamente ad esso, possiamo e dobbiamo intervenire? Se si, come? Definendo un numero minimo di organi partitici e codificando procedure di voto per poter certificare la democraticità di quell’organizzazione di privati cittadini? Potremmo, ma non ne verremmo più a capo.

La valenza del 49 appare quindi più sfuggente di quella del 39. Quest’ultimo, come detto, impatta direttamente su rapporti economici quali la contrattazione collettiva. Il ruolo dei partiti nella società potrebbe essere gestito in modo più efficace ed efficiente intervenendo sulla legge (rigorosamente ordinaria) relativa al finanziamento pubblico degli stessi, ed alla sua demenziale onerosità. Pochi sanno, ad esempio, che una legge del 2006 ha stabilito che il finanziamento debba essere corrisposto per tutti i cinque anni della legislatura, anche se la medesima dovesse concludersi prima. Oppure che i rimborsi elettorali non vengono erogati in base al numero dei cittadini che effettivamente si recano a votare, ma al numero di elettori potenziali. Se un cittadino non va alle urne, il rimborso corrispondente al suo voto verrà redistribuito tra i partiti che hanno raggiunto il quorum minimo, che alle politiche è pari all’1 per cento. Un meccanismo di leva che è l’antitesi del principio liberale di competizione a cui Brunetta afferma di isipirarsi, e che appare molto simile a quello scelto per la ripartizione dell’otto per mille.

In breve, anziché accapigliarsi sui principi supremi, già da oggi esiste l’opportunità di rendere il paese più libero e liberale per legislazione ordinaria, se solo lo si volesse. Tutto il resto è l’abituale teatrino.

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