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Musica Dentro: a Sassari si racconta Paolo Fresu

Il trombettista di Berchidda ha presentato al Conservatorio il suo libro insieme a Salvatore Mannuzzu e Flavio Soriga. Il racconto diventa musica per il pubblico, numeroso ed emozionato come in concerto. 

“Il libro è bello e scritto bene – io invece non so suonare alcun strumento - …Non potevo credere che Fresu, prima di essere tale, fosse uno “sfigato…” . La parte soap tendente al “Chiambretti Style” è esclusiva di Flavio Soriga. A Sassari, l’auditorium del conservatorio cittadino è esaurito già in primissima serata e l’occasione è di quelle grandi. La presentazione del libro di Paolo Fresu, “Musica Dentro”, già best seller dalla sua uscita dello scorso 20 ottobre (edito da Feltrinelli), è forte di tre generazioni diverse, legate dalla comune e caparbia cifra insulare, corpo unico di passione e volontà che rende l’unicum originale. L’antico e il nuovo linguaggio della letteratura sarda, Salvatore Mannuzzu e Flavio Soriga, affiancano il neofita scrittore, la triade offre un affresco affascinate che abbraccia suoni e parole di un esperanto universale. 

L’incipit è dello scrittore magistrato dalle origini toscane. L’autore de “La figlia perduta”, si definisce “obsoleto” per la sua vicinanza (anagrafica) alla prima metà del Novecento. In realtà rivela il continuo e curioso anelito alle conoscenze, quando racconta il suo primo (..”colpo di fulmine”..) incontro con Fresu e l’universo Jazz. A margine del ’93, una trasferta presso l’editore a Torino lo incrocia con una serata concerto del duo Fresu - Di Castri (il contrabbassista). Quella musica ed in particolare il brano “Urlo” (che titolò l’omonimo album),  “...musica sommessa, riflessiva, densa di pathos, tutt’altro che un urlo...” fu il primo moto di “cattura”.

Il secondo e non da meno, aggiunge Mannuzzu, i natali berchiddesi di Paolo. Si apre a questo punto l’album dei ricordi. Precisi e nitidi nell’oralità, come una sequenza d’immagini che illuminano scenari dei primissimi anni del ’900. Una cartolina illustrata dell’epoca, accompagna il narratore che presenta la comunità di Berchidda. Il nonno Salvatore, il canonico Pietro Casu con l’emozione di vedere ancora l’immagine del padre bambino. Tutti intorno al tesoro iconografico del luogo: la Banda Musicale e i suoi membri, veri antenati di quel portento che segnò il Festival Time in Jazz.

La centralità di questa presenza musicale, Mannuzzu la ritrova nel libro di Paolo: diviso a metà fra il racconto di una formazione specifica ed il ritratto dell’ artista cucciolo, un mix dal “risultato irresistibile”. C’è poi la vita di Paolo Fresu con l’infanzia agreste, il primo palco sacro da chirichietto e gli studi sassaresi.  

Una storia normale dove l’anormalità evidente non è la vicenda autobiografica, spiega l’autore. Neppure la spensieratezza di una infanzia trascorsa nelle campagne con il papà contadino che dopo tanti sacrifici, compra il suo terreno (Tucconi), necessita di essere trasmessa. L’insieme dei ricordi, gli odori (l’olio dei pistoni e la custodia della tromba, eredità lasciata dal fratello che entra in seminario), l’incontro con il maestro della banda, sono corollario ad un destino segnato. Che passa dai matrimoni berchiddesi ai primi tour sui palchi di Gallura e Logudoro, con aneddoti tumultuosi come le uscite a rischio incolumità di Sorgono o Teti. Sino alle scuole sassaresi che precederanno l’accesso al conservatorio.

Gli incontri rivelazione prima con il pianista di Oschiri, Antonello Mura e poi con il contrabbassista Bruno Tommaso, fondatore della scuola Testaccio di Roma. Le inclinazioni e le lezioni clandestine di musica jazz con i giovani musicisti sassaresi ’70, fra cui Marcello Marrosu.  Per incarnare la musica metropolitana dei grandi: Chet Baker, Louis Armstrong, Miles Davis, John Coltrane e farla propria in un angolo di mondo, perduto e silente quale Berchidda. Ed in quel silenzio che suona al meglio con le pause giuste, l’intimità solidale con la musica dei reietti neri e afroamericani. Una musica colta che non contaminava l’ultimo anello musicale del genere tradizionale, etnico. Un esempio chiaro nel racconto di Paolo: Umbria Jazz 1993. Dopo una jam con Ornette Coleman, il commento dei Tenores di Bitti: “..Ornetto non conosce il canto a tenore...”  Da allora, ancora prima, tante cose sono cambiate, grazie anche all’apertura interiore di musicisti divenuti artisti. “...Non sono uno scrittore...”, si schernisce Fresu: la musica che porta dentro, è un suono più grande e bello della parola.

 

 

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