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Il sonno delle istituzioni genera mostri (Corrida #53)

L’unico racconto pubblicato a puntate sulla rete che è un po’ come la vita: si sa quando e come inizia, ma non si sa mai bene dove vada a finire.
Il gruppetto di italiani e spagnoli che vivevano sotto lo stesso tetto, ci presentarono al "Big Boss", così si faceva chiamare. Il suo reale nome era McCowan, ma ci teneva ad essere chiamato con tutte le onoreficenze.
 
Big Boss era alto e grasso, un fantoccio pelato con i baffi rossi e lunghi peli nelle braccia. D’estate era sempre preceduto da un alone di marciume, ed i suoi indumenti apparivano sempre bagnati di sudore. Big Boss aveva una fabbrica di medie dimensioni in cui si producevano svariati pezzi di ferraglia, per i più molteplici utilizzi, di ogni dimensione, a seconda delle richieste dei committenti.

Lavoravamo tutti nello stesso edificio, nella stessa catena, e tutti percepivamo lo stesso misero stipendio per le dodici ore lavorate di fila.
 
Non potevamo parlare. Non potevamo muoverci.
 
Le pause per andare in bagno erano spesso cronometrate e monitorate da alcune persone armate e pagate per controllarci. L’odore di ferro tagliato si imparentava col palato e la notte faceva espodere tutti in gonfi colpi di tosse. Eppure nessuno fuggiva: le guardie avrebbero inseguito i fuggitivi, erano "roba" che apparteneva a Big Boss, capi di bestiame che non dovevano scappare dal recinto.

La sera i miei compagni di sfortuna e fatica mi raccontavano voci che arrivavano da un neonato movimento sindacale sotterraneo, o talvolta da scampoli di giornale presi e strappati di soppiatto. A Boxley un operaio era stato ucciso a colpi di bastone dal suo "boss". Nel mentre che questo lo picchiava, il poveraccio aveva invocato l’aiuto dei presenti; due uomini, due operai anche loro, fecero per intervenire, sollevando in aria i picconi. Ma si acquietarono subito non appena udirono alle loro spalle la pistola del loro boss tuonare per aria come primo, gentile, avvertimento.

A Beckley, invece, sei italiani che avevano provato a fuggire vennero legati per i piedi ad una fune e trascinati per la strada polverosa e piena di sassi del paese. Nessuno intervenne. Li vedo nella mia testa, come se a scorrermi davanti agli occhi fosse un combat film, senza suoni, con la pellicola che ogni tanto presenta bruciature o segni del tempo. Vedo i sei italiani contorcersi, sbavare per terra dal dolore della schiena spellata, vedo la polvere penetrare le loro ferite, sento i loro urli. Ma vedo la loro dignità, vedo volti di persone, volti umani.

Domandavo a chi mi raccontava questi aneddoti, sgranavo gli occhi, chiedevo dove fosse la polizia. Risero, immancabilmente, senza rispondermi.

Il sonno delle istituzioni genera mostri, se me la passate.

Non accettavo quella situazione, non accettavo di vivere in una topaia galleggiando nel sudore dei miei stessi abiti, respirando in continuazione l’odore ferreo che si era attanagliato alle mie narici.
 
Felipe aveva preso a tossire anche di giorno. Io lo guardavo preoccupato, e lui mi rincuorava con lo sguardo, diceva: "Fa niente, fa niente". Una volta un colpo di tosse lo costrinse ad allontanarsi per qualche decina di secondi dalla catena di montaggio. Il rullo continuò a muoversi, ma mancando la sua opera, si immobilizzò tutta la catena. Un operaio fermò la produzione abbassando la leva che dava corrente al rullo, per recuperare i pezzi lasciati indietro, e una guardia gli chiese cosa stesse facendo. Lui spiegò, e allora questi andò da Felipe, lo scaraventò a terra e gli puntò la pistola addosso, ordinandogli di non battere più la fiacca, "altrimenti sarebbe morto", che "di un coglione come lui non si sarebbe sentita la mancanza", diceva. Felipe supplicava ed annuiva, in una maniera che non gli apparteneva, le sue risposte ferree, il carattere coriaceo avevano lasciato posto alla voglia di sopravvivere, di lavorare, e soprattutto, di non abbandonarmi. Feci per reagire, ma il mio vicino di fila mi tirò prontamente un pugno alla bocca dello stomaco, non violento, ma abbastanza deciso da farmi rimanere fermo.

Felipe si rialzò. "Domani fuggiamo" gli dissi all’orecchio, "domani fuggiamo".

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