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Il partito darwiniano-leninista

Sull’ultimo numero (nel senso che dopo 63 anni, chiude) della Far Eastern Economic Review, Nicholas Bequelin, definisce il Partito comunista cineseil primo partito darwiniano-leninista della storia".

E’ una definizione calzante, se si considera - con Bequelin - che dopo Tiananmen ‘89, “per sopravvivere e mantenere il potere, il Partito ha deciso che aveva bisogno di adattarsi e rispondere ai cambiamenti sociali. Incessantemente”.

In quest’ottica, anche lo sviluppo economico va inserito in un disegno più ampio: “Identificare e rispondere ai bisogni sociali prima che possano trasformarsi in richieste di riforme politiche e democratizzazione".

E così il Partito comunista è diventato “the first Darwinian Leninist Party in history” e fa dell’adattamento continuo la propria strategia di sopravvivenza.

Un esempio è la gestione degli intellettuali (vedi commento). Perché molti hanno accettato di essere cooptati dal regime? Perché c’è una specie di accordo non scritto per cui “finché rimangono fedeli al sistema, hanno la possibilità di parlare in circoli chiusi e perfino di influenzare le politiche. La scuola centrale del Partito può oggi discutere qualsiasi argomento sotto il cielo. Si tratta di una politica pragmatica per aiutare il Partito a evitare i vicoli ciechi ideologici o i buchi d’informazione che potrebbero portare a sorprese dannose. Questo è anche il motivo per cui - con grande meraviglia dei visitatori per la prima volta in Cina e dei giornalisti occidentali - gli studenti e gli abitanti delle città si dichiarano spesso a favore del dominio del Partito. Se le cose continuano ad andare meglio, perché agitare le acque?”

Ma c’è chi resta fuori al gioco. Sono le “vittime del miracolo” economico cinese: i bambini morti per il latte alla melamina o per il crollo della scuola durante il terremoto del Sichuan, gli abitanti dei “villaggi cancerosi” e così via. Ci sono anche giornalisti coraggiosi che raccontano le loro storie e avvocati altrettanto coraggiosi che prendono le loro parti.

Complice un non ben definito codice penale, il sistema reagisce allora disordinatamente: se qualcuno può esporre liberamente le proprie istanze, qualcun altro finisce in galera perché tocca nervi scoperti e interessi costituiti. Qualche attivista anticorruzione continua a scrivere su prestigiose riviste, altri scompaiono (si fa qui riferimento alle famigerate “black jails” di cui, si dice, ce n’è una settantina solo a Pechino).

Divaghiamo.
come tutti i sistemi e tutti gli organismi, quello cinese funziona (ed evolve) inglobando ciò che può tollerare e reprimendo ciò che è irriducibile: facendolo letteralmente sparire.
Questo tipo di funzionamento sistemico non è una prerogativa del Celeste Impero.

Si pensi alla nascita della chiesa cattolica: da un “movimento cristiano” fatto di molteplici narrazioni si prese per buono e si codificò solo ciò che era funzionale alla riproduzione di un potere centralizzato, maschile, in diretta filiazione con lo stoicismo dell’impero romano.
Il dio padre onnipotente si impose ad altre visioni, comunque cristiane, che presupponevano una divinità asessuata o talvolta femminile. Castità e repressione della sessualità furono prescritte contro culti orgiastici e libera espressione del desiderio.

Anche la democrazia moderna nasce così: l’irrompere dei nuovi ceti borghesi produttivi richiede che si allarghi la rappresentanza, ma si deve lasciare fuori ciò che non è funzionale al mercato. La Riforma dà voce alle nuove istanze, la chiesa di Roma si adegua, ma sia cattolici sia protestanti perseguitano ferocemente eretici, “streghe” (in realtà donne che sfuggivano al ruolo che le nuove esigenze produttive assegnavano loro), culture alternative.

Un sistema funziona riducendo la complessità che lo circonda, prendendo da essa ciò che può nutrirlo e arricchirlo, espellendo ciò che lo avvelena.
Quando il caos che lo circonda diventa irriducibile, il sistema/organismo non riesce più ad adattarsi e muore.

Oggi, in Cina, la complessità è in aumento.
I 90mila “incidenti” (leggi “sommosse”) che si verificano ogni anno e le tensioni etniche in Xinjiang e Tibet sono lì a testimoniarlo.
La domanda fondamentale è: il sistema-Partito riuscirà a mantenere la stabilità adattandosi a elementi crescenti di complessità?

Difficile fare previsioni. Ecco tuttavia alcune “figure del caos” con cui l’organismo-Partito è chiamato a confrontarsi

Primo. Non solo contadini e minoranze etniche, ma anche il ceto medio urbano scende in strada a protestare.
In parallelo al benessere, ha accresciuto le proprie aspettative in materia di diritti. Fanno testo le proteste di Xiamen contro l’impianto petrolchimico (2007), quelle di Shanghai contro il prolungamento del Maglev, la linea ferroviaria ad alta velocità (2008), o quelle di Urumqi contro le inefficienze dei sistemi di sicurezza nel corso della rivolta uyghura e dopo (2009).
Il ceto medio urbano è alla base del patto sociale che garantisce il Pcc: benessere in cambio del mantenimento del potere.
Non sarà facile adattarsi alle sue sempre più complesse richieste.

Secondo. Nella società emergono interessi in contrasto tra loro. Come mediare le richieste dei contadini con quelle dei costruttori/immobiliaristi a caccia di nuovi terreni dove edificare? Come bilanciare le esigenze dell’impresa pubblica con quelle delle aziende private? Ogni decisione del Partito rischia di scontentare una delle parti in causa, se non tutte.

Il punto fondamentale - conclude Bequelin - è che il Partito sembra avere raggiunto un punto in cui ogni ulteriore concessione potrebbe erodere il suo monopolio del potere.
Il giudiziario, ad esempio, per garantire i diritti di tutti (e favorire ulteriormente gli investimenti stranieri, spesso scoraggiati dall’arbitrarietà giuridico-amministrativa), dovrebbe sottrarsi al controllo del Partito.
Il futuro della Cina passa anche e soprattutto attraverso la soluzione di queste contraddizioni.

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