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Il decennio dell’abolizionismo

La pena di morte è un fallimento”. Così, nell’autunno dell’anno ormai passato (precisamente il 23 ottobre), un importante istituto giuridico statunitense, l’American Law Institute (ALI), definì la struttura di base del moderno sistema che regola la pena capitale. Facendo marcia indietro sulle sue decisioni, poiché fu proprio lo stesso istituto a crearlo 50 anni fa, viene ritirata una sezione importante del modello. Un compromesso, certo, che arriva meglio tardi che mai, ma un importante segnale e, secondo abolizionisti e New York Times, un passo decisivo, quasi “epico”, verso la fine delle esecuzioni capitali negli Stati Uniti.
 
La decisione va a situarsi in mezzo ad altri importanti sviluppi: la diminuzione delle sentenze, qualche abrogazione. L’ALI (composto in prevalenza da giudici, avvocati e professori universitari), resta, ad oggi, l’unica voce intellettualmente influente a supporto della pena di morte, precisamente da quando, nel 1962, ne disegnò il modello (che fu introdotto però solo 14 anni dopo), attraverso il quale si proponeva di gestire la discrezionalità delle sentenze con una serie di aggravanti/attenuanti.
 
Proprio questa discrezionalità crea una “falla” all’interno del sistema, poiché troppi elementi concorrono a rendere dispari i trattamenti dei condannati: dalla razza, alla disponibilità di denaro per poter pagare gli avvocati, fino ad arrivare agli errori giudiziari e quindi alle esecuzioni di innocenti (come viene tristemente messo in luce nel bellissimo film di Alan Parker: “The Life of David Gale”).
 
Ci si avvia quindi, in apertura di questo decennio, verso un cambiamento radicale nel braccio della morte, definito ormai, per usare le parole di Samuel Gross, “un fallimento, reale e morale”.

 

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