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Identità Nazionale sotto la Tour Eiffel

Il governo francese ha lanciato, circa un mese fa, un dibattito che ha subito infiammato stampa e cittadini. Il sito ad hoc per porre al popolo la discussa domanda: "Cosa vuol dire essere francesi oggi?" non è una grossa novità rispetto alla linea politica intrapresa da Nicolas Sarkozy sin dalla sua elezione, ma ha comunque scatenato diverse polemiche all’interno del panorama politico transalpino.

Il sito raccoglie le reazioni di chiunque voglia interessarsi alla discussione, indipendentemente dal credo politico, e i commenti di chi critica la base stessa della domanda posta.

Un cittadino, in uno degli ultimi commenti pubblicati, scrive che “essere francese è trovare questo dibattito sull’Identità Nazionale ridicolo e vergognoso”. Ben interpreta lo stato d’animo di una gran parte dei cittadini: sin dalla creazione del “Ministero dell’immigrazione e dell’identità nazionale”, le critiche al capo di stato francese non si sono mai fermate. Cosa si nasconde dietro questa dicitura?

Giovanni Sartori ha sottolineato che “definire l’identità è naturalmente un processo di esclusione. Con poche parole conferma la sua fama e non lascia molto spazio a speculazioni. Tuttavia è opinione di chi scrive che se la definizione data da Sartori è assolutamente valida sul piano pratico, sul piano teorico potrebbe avere qualche falla. La questione sulla quale ci si vuole soffermare è estremamente semplice: se dal dibattito venisse fuori una definizione altamente inclusiva di identità nazionale francese? È possibile, cercando di sfuggire ad ogni altermondialismo, che i francesi si autodefiniscano in maniera estensiva? Come può accadere?

È possibile che i francesi riconoscano nelle ondate immigratorie provenienti da ex colonie e dom-tom una componente fondamentale della società francese. Zidane, idolo indiscusso delle folle, non è forse un algerino? Gad Elmaleh, comico geniale, non è forse marocchino? E Tintin, non è forse belga? Risulta dunque che l’origine, il colore della pelle o la religione non siano criteri adatti a tracciare i confini dell’identità nazionale.

Essendo un tratto distintivo, questo sì, la fierezza dell’essere francese (quella fierezza che alcuni chiamano “sciovinismo”, è altrettanto possibile che l’uomo della strada sublimi questo orgoglio in simboli pagani, così come emerge dal dibattito nazionale, come la marsigliese, la baguette, il formaggio, il ’68, il vino e quelle tre parole, Liberté Egalité Fraternité, eredità di una rivoluzione lontana.

Possiamo dunque ammettere che l’identità francese si fondi sull’amare formaggi dall’odore non sempre invitante, sui vini delle colline di Champagne, sulle baguettes ascellari e sull’orgoglio? Possibile che un allergico al lattosio, un astemio ed un amante dell’igiene personale debbano essere esclusi da tale definizione?

La mia conclusione è la constatazione di un’assenza totale di dibattito, sostituito invece da una grande manovra mediatica ad opera del potere costituito e dei suoi sotenitori, volta ad indirizzare l’opinione pubblica. In Francia di parla molto più esplicitamente e più sovente della politica "della paura" messa in campo da una decina di anni da parte dei leader occidentali. La paura è un potente mezzo di controllo e dopo i polli influenzati e i tre porcellini infetti, la macchina del potere non si arresta ed è sempre in funzione. Ed il dibattito sulle prime pagine dovrebbe prendere le mosse da un insegnamento di Karl Popper; che ci ricorda che siamo in democrazia quando i cittadini si possono sbarazzare dei loro governanti senza spargimento di sangue. Cosa bisogna rispondere ad una classe politica che invece mira a consolidare la propria posizione di supremazia facendo leva su sentimenti tipici della prima metà del secolo scorso?

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