• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tempo Libero > Recensioni > I limiti del pensiero politico islamico

I limiti del pensiero politico islamico

Il libro "Perché il mondo arabo non è libero. Politica della scrittura e terrorismo religioso" (www.spirali.com, 2008), è un’opera di notevole livello intellettuale che punta il dito sull’uso dogmatico, politico e religioso, del linguaggio scritto, e propone l’utilizzo delle lingue regionali per liberare l’islam dalle catene del potere temporale.

L’autore è lo psicanalista Moustapha Safouan (di formazione lacaniana), un teorico franco-egiziano sempre in contatto con gli ambienti intellettuali e universitari egiziani. Per questo importante intellettuale europeo di origine islamica, finché durerà la sacralizzazione dell’arabo con cui si impara a scrivere, la popolazione islamica resterà nell’impossibilità di rivedere i concetti che regolano la loro “esistenza e che passano per evidenze o per cose che fanno parte dell’ordine naturale. Finché durerà il disprezzo della lingua materna come lingua inadatta al pensiero, il popolo non potrà che rassegnarsi a lasciare questa operazione a coloro che… non pensano. Lungi dal rimetterlo in causa, il fallimento del dispotismo sarà costantemente imputato al despota; se ne attenderà un altro!” (p. 183).

L’arabo antico non riesce a far evolvere la psicologia delle persone e poi, a quanto pare, uno dei limiti più vincolanti e pesanti della lingua araba classica e scritta è quello di non permettere l’espressione dei motti di spirito (p. 177), per cui tutto quello che si scrive viene preso seriamente anche se nella sua origine verbale poteva essere una battuta (esempio: quando entra una donna è come se entrasse il diavolo).

In particolare “L’ambiguità dell’espressione “successore del Profeta” ha facilitato la sacralizzazione del potere temporale, sicché si può dire che lo stato islamico si è fondato in ultima istanza su un uso volontariamente o involontariamente scorretto del vocabolo “successore”. Di fatto, l’inquadramento della religione sotto la frusta del potere politico è incominciata quando il cadavere del Profeta era ancora caldo, con lo scoppio di una lotta omicida per il potere” (nota di p. 153). Perciò, con un’impostura che raramente trova uguali nella storia politica dell’umanità, tutti i successivi governanti si sono serviti dell’ambiguità dell’espressione “successore del Profeta” per rivendicare il potere e mettere la religione sotto il controllo assoluto dello stato. Ne deriva un modo di governare che utilizza la corruzione, la repressione e la censura, e mantiene una politica della scrittura antiquata e pietrificata che non riesce nemmeno a comunicare con se stessa.

L’esistenza di modelli di Stato esterni come quelli presenti nelle democrazie occidentali può dare luogo a delle prese di coscienza, ma questi effetti restano limitati alle classi minoritarie più istruite. “Da parte sua, il popolo è stato educato in modo da rinunciare a ogni pensiero. Se parlate di democrazia all’uomo della strada, vi dirà che “non è per noi”, oppure la vedrà come un ideale irrealizzabile. La dimensione dell’ideale si esprime nella mente di tutti tramite la sola parola Islam” (p. 174). Se lo stato riesce a mantenere livelli di sopravvivenza accettabili, il regime teocratico può apparire conforme all’ordine delle cose. Però il suo fallimento difficilmente darà luogo a una rivoluzione, poiché pochi riescono a unirsi, e solitamente lo fanno in una forma di terrorismo che contesta la legittimità dell’interpretazione islamica in modo maschilista e violento. I terroristi di oggi fondano la loro contestazione su un dogma omicida con cui si autorizzano a ergersi giudici in materia di fede religiosa, arrogandosi un sapere che il Corano riserva espressamente a Dio (sarà Dio a giudicare le motivazioni delle azioni degli uomini).

Inoltre Safouan afferma: “Nessuna cultura può svilupparsi senza una comunicazione con altre culture, e comunicazione significa traduzione. Il numero dei libri tradotti in arabo ogni anno raggiunge alcune dozzine, mentre le traduzioni in polacco e in giapponese si contano a migliaia… Quand’anche fossimo stati colonizzati dall’Occidente, cosa che non ci inclina ad avere verso i paesi occidentali il minimo di amicizia richiesto per ogni scambio culturale, la nostra povera traduzione nel campo della traduzione è il segno di un’interferenza di qualcosa di diverso dall’equilibrio dei poteri. La povertà delle traduzioni è un indice sicuro che c’è qualcosa di marcio in tutta la nostra cultura contemporanea, fondata su una politica della scrittura che dura da migliaia di anni. È questa politica che dobbiamo sovvertire se vogliamo prendere parte al nostro destino, cioè se vogliamo avere un’esistenza storica creativa” (p. 114).

Lo studioso apolide ritiene che per iniziare a migliorare la situazione planetaria, le “organizzazioni non governative farebbero meglio a dedicare una vasta parte delle loro risorse a ristampare gli scrittori veramente innovatori, a moltiplicare gli studi delle grammatiche delle lingue arabe materne, a sviluppare centri per l’apprendimento delle lingue straniere, a pubblicare i capolavori già scritti in vernacolo e quelli che lo saranno” (p. 183), senza tralasciare gli autori più datati come La Boétie (Discorso della servitù volontaria, 1576).

Comunque un pensatore tedesco del settecento formulò un aforisma molto penetrante: “Esiste una forma di ventriloquia trascendente che consiste nel fare credere alla gente che una cosa che è stata detta sulla terra venga dal cielo” (G. C. Lichtenberg, Lo scandaglio dell’anima, Bur, 2002). Invece si racconta che Aisha, la moglie più intelligente del Profeta, gli abbia detto: “O messaggero di Dio, Dio ti manda le rivelazioni che ami”. Ed egli rise (la storia o è vera o è ben raccontata).

 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares