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Giappone, sarà vera svolta?

Con l’eccezione di un breve periodo di opposizione, nel 1990, il Partito Liberal Democratico (LDP) ha governato il Giappone negli ultimi 50 anni. Ora il Partito Democratico del Giappone (DPJ) ha ottenuto, il 30 agosto, una vittoria schiacciante nelle elezioni per il parlamento giapponese, ed oggi il parlamento ha eletto nuovo premier Yukio Hatoyama. Se un tale sconvolgimento politico si fosse verificato in qualunque altro paese, avrebbe attirato enorme interesse, sia in patria e all’estero. Invece, la reazione dei mercati finanziari giapponesi a questo storico cambiamento è stata pressoché nulla.

I politici giapponesi vanno e vengono, ma il loro impatto sul mercato tende ad essere molto limitato. Questo perché, da sempre, il potere è in mano ai burocrati. Ed è per questo che sia gli investitori nazionali che gli stranieri hanno finora largamente ignorato l’elezione. Vi è stato un certo interesse speculativo su singoli settori ed imprese che saranno probabilmente beneficiate dal nuovo governo, come l’assistenza all’infanzia e l’ambiente ma, in generale, le aspettative per il nuovo governo non sembrano elevate.

Un Giappone più consumatore e meno esportatore

Eppure, il manifesto del DPJ contiene alcune idee potenzialmente rivoluzionarie per la società giapponese, quali aumento del reddito disponibile per le famiglie, gratuità dell’istruzione superiore, abolizione dei pedaggi autostradali, eliminazione delle addizionali sulle aliquote d’imposta sui redditi. Misure che potrebbero trasformare quella giapponese in un’economia centrata sulla domanda interna, rispetto ad un modello in essere dal Dopoguerra che è invece centrato sulle esportazioni. Ma resta l’incognita di come finanziare le riforme: il pacchetto di tagli fiscali e nuove prestazioni è stimato ammontare a oltre il 3% del PIL, il DPJ sostiene che si può finanziare con tagli agli sprechi, oltre che con l’utilizzo del “tesoro nascosto”, un fondo di riserva istituito in molte parti del bilancio statale, stimato in 4000 miliardi di yen. Resta da capire quanto realistico è questo obiettivo.

Nel 2005, quando Koizumi è salito al potere, gli investitori stranieri hanno espresso forte interesse per il potenziale di cambiamento in Giappone. Questa volta le aspettative sono molto minori e gli investitori stranieri rimangono scarsamente investiti, preferendo concentrarsi in settori come auto e tecnologia. Tuttavia, se il DPJ avrà successo nell’attuazione del proprio programma-manifesto, i settori nazionali quali il retail saranno i principali beneficiari. Recenti indagini indicano che gli investitori stranieri rimangono molto sottopeso proprio in tali settori.

L’agenda di un partito-enigma


Il DPJ è un partito difficilmente classificabile, sul piano ideologico: appare come una sorta di raccoglitore di fuoriusciti del partito Liberal Democratico impegnati a perseguire una propria agenda politica di dissenso, ed ha inoltre accolto numerosi esponenti della sinistra. Il rischio di produrre politiche incoerenti e di avere come proprio collante unicamente il populismo è quindi elevato, senza contare che il programma potrebbe essere frustrato dalla problematica condizione fiscale del paese.

Vi è poi un potenziale rischio per i vincitori: l’ex presidente del partito, Ichiro Ozawa, è stato costretto a rassegnare le dimissioni all’inizio di quest’anno a seguito di uno scandalo politico relativo a donazioni. Ci sono voci che il suo successore e futuro primo ministro, Yukio Hatoyama, potrebbe a sua volta essere implicato in uno scandalo relativo a finanziamenti al partito. Se l’LDP decidesse di spingere questo tema dall’opposizione e Hatoyama fosse costretto a dimettersi da primo ministro, gran parte del impulso positivo del DPJ potrebbe essere vanificato.

Per attuare la propria agenda, il DPJ dovrà smantellare quello che è stato chiamato “il triangolo di ferro”, composto dal partito Liberal Democratico, dai grandi burocrati pubblici e dalle grandi imprese, e che è stato al centro del modello economico giapponese del Dopoguerra, fatto di esportazioni e di grandi imprese conglomerate. Il DPJ punta a creare un modello basato sui consumi delle famiglie, e necessita quindi di smantellare questa rete di rapporti privilegiati. Per ottenere ciò, cambierà il decentramento fiscale: i governi locali otterranno fondi che potranno essere spesi secondo le loro priorità e preferenze, mentre oggi la destinazione è decisa dai ministri e dai burocrati ministeriali attraverso le prefetture, che erogano materialmente gli importi. Anche il processo legislativo, oggi in capo ai burocrati ministeriali che redigono le leggi inviandole in seguito al parlamento senza praticamente alcun controllo del governo, verrà riformato.

La riforma del processo di allocazione delle risorse colpirà soprattutto il settore dei lavori pubblici, controllato dalla burocrazia statale, oltre ai trattamenti fiscali preferenziali per alcuni settori. Da queste revisioni di spesa, oltre che dal già citato “tesoro occulto”, dovrebbe prodursi il finanziamento delle misure volte ad aumentare il reddito personale disponibile. Tra tali misure figura un assegno familiare equivalente a 3300 dollari annui per ogni figlio, maggiori sussidi agli agricoltori e maggiori benefici di welfare, soprattutto ad uso degli anziani, una coorte di cittadini-elettori in forte ampliamento in Giappone, una delle società a maggiore invecchiamento. Per i pensionati sono previsti l’innalzamento del reddito minimo e l’eliminazione dei contributi sanitari. Per il mercato del lavoro sono previste misure a favore dei precari, un gruppo la cui consistenza è in forte aumento.

Più in generale, la retorica del futuro primo ministro Yukio Hatoyama, è di tipo populista e pro-regolamentazione, ed esprime critiche al sistema del libero mercato (che il Giappone tuttavia non ha mai realmente conosciuto), con grande tempismo rispetto alla delicata fase economica che stiamo vivendo, in cui gli elettori esprimono soprattutto un bisogno di protezione. Tuttavia, a giudizio degli economisti, per risolvere i propri problemi strutturali al Giappone serve meno e non più regolamentazione, anche se la maggiore sicurezza che le politiche promesse potranno dare (soprattutto sul mercato del lavoro) servirà a sostenere i consumi, che rappresentano oltre metà del Pil.

Problemi strutturali

Nell’anno fiscale 2010, che va da aprile a marzo dell’anno successivo, le proposte di spesa sociale del DPJ costeranno circa 7000 miliardi di yen, e questa cifra è destinata a subire un forte incremento negli anni successivi. Il partito di maggioranza ha promesso di non alzare le tasse sui consumi per i prossimi anni. Ciò pone l’agenda del DPJ in rotta di collisione con la dura realtà della posizione fiscale giapponese. Il debito pubblico salirà nel 2009 al 191 per cento del Pil, di gran lunga il peggiore del mondo sviluppato. Ulteriore stimolo pubblico, combinato con un calo delle entrate fiscali, rinvierà di molti anni l’appuntamento con il pareggio del saldo primario del bilancio pubblico (cioè al netto della spesa per interessi).

I problemi economici strutturali del Giappone sono così radicati che è lungi dall’essere chiaro se e in che modo il recente esito elettorale, per quanto “storico” in termini politici, riuscirà a mutare le prospettive di lungo termine dell’economia. Il consumatore giapponese, che non ha il peso del debito del suo omologo statunitense, è comunque molto debole: il tasso di risparmio è in costante diminuzione, ed è passato dal 15 per cento del reddito disponibile nel 1991 al 3 per cento del 2008, ponendo anche rischi per la sostenibilità dell’enorme stock di debito pubblico. Ma soprattutto il Giappone è tornato in deflazione. A luglio (ultimo dato disponibile), l’inflazione tendenziale complessiva era a meno 2,2 per cento annuale. Parte di questo movimento è dovuto al venir meno dello shock dello scorso anno nel prezzo delle materie prime. La recente ripresa dei prezzi dell’energia indica che probabilmente l’inflazione complessiva ha toccato un minimo ciclico. Ma il passo del declino nei prezzi core (al netto di alimentari ed energia) ha accelerato. L’enorme eccesso di capacità sia nel mercato del lavoro che in quello dei prodotti indica che è probabile che l’andamento dell’inflazione core proseguirà al ribasso. Gli analisti stimano che l’output gap, la differenza tra il Pil potenziale e quello corrente, sia intorno al 7 per cento, livello mai raggiunto nemmeno nel cosiddetto “decennio perduto”, negli anni Novanta.

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