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Da Pulitzer al Pulitzer

“Sul giornalismo” è il testamento intellettuale del fondatore della prima vera scuola di giornalismo (www.bollatiboringhieri.it, 2009).

Joseph Pulitzer (1847-1911) era un ungherese naturalizzato americano che diventò un famoso giornalista e un grande editore. Arrivò negli Stati Uniti a 17 anni e iniziò a lavorare come reporter in un giornale di lingua tedesca a 21 anni. Pulitzer faceva un giornalismo d’inchiesta che bersagliava senza pietà il malaffare politico e finanziario. Istituì il più ambito premio americano di giornalismo, letteratura e musica (la premiazione annuale è prevista in aprile), lasciando due milioni di dollari alla Scuola di giornalismo della Columbia University di New York.

Nel mondo delle professioni “Il giornalista ha una posizione tutta speciale. Lui solo ha il privilegio di plasmare le opinioni, toccare il cuore e fare appello alla ragione di centinaia di migliaia di persone ogni giorno” (p. 25). Per questo motivo Pulitzer non ha mai considerato il giornalismo come un’impresa commerciale e cercava di promuovere gli aspetti morali e culturali di questo mestiere affascinante. Il filosofo Karl Popper ha espresso un’opinione simile affermando che “La Tv dà alla gente ciò che la gente vuole, ma questo non corrisponde all’idea di democrazia, che è quella di far crescere l’educazione generale offrendo a tutti opportunità sempre migliori”.

Comunque secondo il grande mito mondiale del giornalismo “Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché a essa ci si può appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo e una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello” (p. 101). Ecco perché Joseph Pulitzer ha affermato che “un giornalista privo di moralità è privo di tutto”.

Per questo motivo decise di creare un’istituzione in grado di formare dei veri professionisti: non si possono imparare immaginazione, curiosità, spirito di iniziativa, dinamismo, ironia, entusiasmo, ma possono essere coltivate, sviluppate e rafforzate (p. 32). Ci sono troppe persone pronte “ad alimentare le vanità, a solleticare le passioni e a enfatizzare i sentimenti del momento”. Le democrazie hanno bisogno di “uomini capaci di nuotare controcorrente, di denunciare gli errori commessi, di insistere con maggiore forza su un problema quanto più risulta sgradito” (James Bryce).

Però i due saggi risalgono al 1904 e quella era un’epoca e un paese dove l’orgoglio di categoria forgiava uno spirito che garantiva “contro il controllo della stampa da parte di potenti interessi finanziari… nessun giornalista che si fosse degradato tanto da diventare il mercenario di magnati o cricche di Wall Street avrebbe avuto il coraggio di guardare il faccia i suoi colleghi. Si vergognerebbe di aver tradito la sua vera natura e, parimenti, la tradizione dell’università e della sua professione” (p. 26).

Oggi invece lavorano quasi tutti come galline in batteria: hanno il loro mangime informativo, fanno un uovo al giorno per i loro padroni e sparano numerose stupidaggini. E’ però vero che sono scomparsi gli editori puri e i proprietari di giornali e tv possiedono spesso troppe attività imprenditoriali. Pulitzer creò una scuola di giornalismo perché aveva compreso che il governo del denaro e dei criminali era un rischio costante e concreto per tutte le generazioni di americani e di cittadini.

La seguente affermazione spiega bene i motivi della sua decisione: “la nostra Repubblica e la sua stampa progrediranno o cadranno insieme… Una stampa cinica, mercenaria, demagogica e corrotta a lungo andare renderà il popolo tanto ignobile quanto lo è essa stessa” (p. 85). Anche il giornalista e scrittore americano Walter Lippmann era della stessa opinione e affermò che “Non ci può essere libertà per una comunità che manchi di strumenti per scoprire le menzogne” (L’opinione pubblica, 1922).

Del resto, “il pensiero è l’unico potere davvero illimitato. La Rivoluzione francese scaturì dall’idea di pochi uomini. Voltaire, Rousseau e gli enciclopedisti dissero che l’idea che le persone appartenessero al re per diritto divino era assurda, che ogni persona apparteneva soltanto a se stessa. Il pensiero si tradusse in azione. Un pensiero datato ma applicato a una nuova situazione è anch’esso nuovo. Robespierre parlò del “governo del popolo, a mezzo del popolo, per il popolo” molto prima che Lincoln nascesse”. Eppure fu Lincoln a rendere quella frase immortale. Chi può dire dove si fermerà l’influenza di una buona idea?

La postfazione del libro è stata affidata al reporter di guerra Mimmo Candito del quotidiano “La Stampa”, che è anche presidente italiano dell’organizzazione non governativa Reporters sans frontières. Qui si descrive il nuovo News Management che offre una miriade di notizie ai reporter per tenerli lontani dai campi di battaglia. E alla minoranza che decide di proseguire viene impedito di muoversi in libertà ed è obbligata ad aggregarsi ai soldati in missione. Inoltre si parla della triste fine di un mondo: negli Stati Uniti e non solo, “tra le generazioni al di sotto dei quarant’anni di età la lettura dei giornali a stampa è crollata a livelli vicino allo zero assoluto e le testate giornalistiche, perfino testate storiche e di larga diffusione, chiudono sempre più numerose o passano comunque a una produzione esclusivamente online” (p. 117).

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