Il bitcoin si avvia alla sua fine
La valuta elettronica, che un paio di anni fa sembrava l’ultimo grido e il passo successivo nell’evoluzione dell’economia virtuale, oggi è in crisi. Uno dei suoi fondatori ha lanciato l’allarme, e potrebbe esserci un crollo in qualsiasi momento.
Il bitcoin, la moneta elettronica staccata da ogni Paese o Banca centrale che negli anni scorsi ha tanto acceso l’immaginazione ddel pubblico, sta avviandosi alla fine della pista. L’ultimo colpo è stato inferto da uno dei fondatori, Mike Hearn: ha avvisato gli utilizzatori che “i fondamentali del bitcoin” (qualunque cosa intenda con questa espressione) sono ormai compromessi, e ha aggiunto di aver venduto tutte le sue disponibilità nella valuta elettronica. Come dire che ormai è solo questione di tempo prima che il valore precipiti a meno di epsilon, smascherando il bitcoin per quel che è: un’altra bolla che prima o poi doveva scoppiare come tutte le consorelle.
Il bitcoin, a suo modo, era un’idea geniale. Ma anche un colossale esercizio di sfruttamento della credulità umana. Con il bitcoin, tutto avviene come se la moneta elettronica avesse un autentico valore. Bisognava “estrarlo” dalle viscere di un server come un metallo prezioso da quelle della terra; come con le miniere vere e proprie, occorrevano grandi investimenti e attrezzature (sia pure in questo caso virtuali) di alta complessità. Questo “bitcoin mining” poteva creare bitcoin solo fino a un certo ammontare complessivo prefissato dal fondatore del sistema, un giapponese virtuale a cui nessuno è mai riuscito a mettere il sale sulla coda. Chi non aveva queste risorse, il bitcoin poteva ottenerlo solo cambiando altre valute o vendendo qualcosa ai legittimi proprietari e facendosi pagare in bitcoin.
Nessuno Stato con tanto di esercito aviazione fisco e banca centrale ti obbliga ad accettare bitcoin in cambio della tua merce, qualunque sia. Dunque il bitcoin vale solo nella misura in cui la gente crede che valga. Per questo in tutto il corso della sua storia il cambio è stato soggetto a una volatilità estrema, dalla polvere agli altari e ritorno nel giro di poche ore o minuti.
In finanza, sicuro, così è, se vi pare, come diceva Pirandello. Il valore economico di ogni cosa è sempre dato soltanto dalla disponibilità di qualcuno a dare in cambio qualche cosa d’altro. L’oro vale perché qualcuno è pronto a pagare dollari o euro per procurarselo. Gli euro valgono perché qualcuno è disposto ad accettarli in cambio, per esempio, di una delle innumerevoli merci che si vendono sul mercato europeo.
Certo, ci possono essere motivi sensati per cui qualcosa appaia possedere un valore – con l’oro, per esempio, si possono fare bei gioielli, con le prugne secche si può stimolare un intestino pigro – ma il passaggio cruciale è quello in cui queste qualità reali vengono credute utili e preziose, e di conseguenza utile e prezioso diventa anche l’oggetto che le possiede. Di per sé, le qualità reali non determinano alcun valore. Se i gioielli non piacessero più a nessuno, le proprietà fisiche del metallo “oro” che consentono di fabbricarci gioielli, pure invariate, diverrebbero irrilevanti e l’oro varrebbe come la sabbia nel deserto. Per giustificare la spesa necessaria per acquistare dell’oro ci vorrebbero altre motivazioni.
Il bello (per così dire) di tutta 'sta manfrina è comunque che non importa che le motivazioni siano sensate, basta che la gente ci creda. I corni di rinoceronte non hanno proprietà afrodisiache, ma in Asia molti credono che ce le abbiano e per comprarli sono disposti a pagare molto e a violare la legge. Ovviamente, se le proprietà dell’oggetto prezioso sono chiare e per tutti indubitabili, è meglio e la stabilità è maggiore.
Per le valute reali, alla credibilità contribuisce l’obbligo che fa uno Stato o un insieme di Stati di accettare la moneta in pagamento di qualcosa. L’autorità dello Stato è dietro il valore del dollaro o dell’euro. Le crisi di credibilità non sono escluse, e per questo esistono istituzioni e strumenti capaci di gestire il valore della moneta, ma in condizioni normali nessuno dubita che l’euro di oggi potrà comprare qualcosa anche domani.
La natura del bitcoin è meno scontata. Dallo scorso settembre, per esempio, è classsificato negli Stati Uniti fra le commodities, come l’oro o il petrolio, con la Commodity Futures Trading Commission che ha cominciato a perseguire i trader non autorizzati.
Nel caso del bitcoin, può stupire che una folla di gente si sia precipitata a usarlo, sebbene non ci fosse nessuno Stato a sancire un obbligo di accettarlo in cambio di altri valori, reali o finanziari. Il suo valore poggiava in ultima analisi sull’infatuazione per l’informatica e la telematica: così come per Internet, la gente aveva voglia di credere che tutto si potesse fare in maniera dispersa e senza regolazione, anche una moneta. Di qui il successo della valuta e il suo rapido apprezzamento. Bastava avere qualche server nel cloud e la testa fra le nuvole.
Dopo l’iniziale esplosione di interesse, però, da tempo sta montando la diffidenza: come nella favola dell’Imperatore e del suo vestito, qualcuno dice chiaro che il bitcoin è nudo. Per questo arriverà la fine, e arriverà presto.
Non illudiamoci che il crac avvenga in modo graduale: poiché non poggia su niente altro che su un mazzetto di opinioni, più effimere di un mazzo di fiori, il valore del bitcoin può azzerarsi anche in una singola seduta. Ma siccome la credulità umana non ha limiti, è già pronto qualche successore – fondato su una tecnologia un po’ differente, ma con la stessa radicale mancanza di base nel mondo fisico. Aspettiamo e vedremo quanto ci metteranno anche i successori a finire in bolla.
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