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Gli ombrellini di Liberty Plaza

Obama stesso ammette le sue difficoltà per la rielezione. Ma perché è arrivato a questo punto? Dove ha fallito? Come ha fatto a consumare tanta credibilità e tanta speranza?

La notizia che rimbombava ieri, fra gli schiamazzi politici di casa nostra, mi sembra essere il lamento di Obama che paventa di non reggere alla prova delle prossime presidenziali.

Lo dico con un pizzico di legittimo, mi pare, orgoglio perché "Sono Le news bellezza", il libro edito da Donzelli che scrissi l'anno scorso, lo aveva ipotizzato più di un anno fa, fra i diffidenti lazzi generali.

Obama fa intendere che la crisi, presente e soprattutto futura, rischia di stritolarlo, di colpirlo politicamente nel suo vero core buisiness con il quale si era presentato agli elettori tre anni fa: We can.

Noi possiamo governare la crisi perché cambieremo le regole del gioco, annunciava messianicamente l'allora curioso candidato colored. E possiamo mutare le regole perché abbiamo cambiato base sociale e interessi da rappresentare.

In sostanza siamo in grado di domare l'orso e il toro di Wall Street perché non dipendiamo da esso, era il lucido messaggio che entusiasmava l'America.

Così non é stato.

Glielo ricordano le migliaia di persone che si stanno alternando a Liberty Plaza, proprio nei pressi della mitica Wall Street, dove indignados wasp stanno allestendo una Piazza Tahir occidentale.

Il crogiolo sociale della protesta americana è davvero interessante, come spiegava ieri su Repubblica Michel Moore, l'eccentrico documentarista americano che coglie con tempismo i fermenti sociali del paese.

Insieme ad un nocciolo di indignados tradizionali (giovani e precari) si stanno addensando ceti produttivi che toccano in pieno la mitica middleclass americana: piloti d'aereo, tranvieri, funzionari della pubblica amministrazione, insegnanti, medici.

E' questa la base sociale che denuncia la propria proletarizzazione, chiedendo ragione al milieu finanziario: tutti a Wall Street sede del nemico.

Qualcuno la chiama la vendetta dell'89, l'anno della caduta del muro di Berlino.

Quello spettro scacciato e deriso dal palcoscenico politico europeo, più che il comunismo diciamo una politica basata sull'ambizione di un'equità sociale strutturale, torna a scardinare la tranquillità dei vincitori, rendendo irrequieta la società occidentale e non adeguato il suo sistema politico-istituzionale.

Non senza ambiguità, i ribelli di oggi - spiega Ivan Krastev, uno dei più acuti e brillanti politologi contemporanei - "non si oppongono allo status quo ma vogliono preservarlo; è un 68 al contrario".

Mentre allora gli studenti gridavano di non voler vivere nel mondo dei loro genitori oggi, invece, scendono in piazza per difendere il loro diritto a salvare quel mondo.

E' questo il risultato di una modernizzazione che ha sgretolato le vecchie certezze fordiste - basate su fabbrica di massa, lavoro di massa, consumi di massa, protezioni di massa - ma che non riesce a dare un volto inclusivo alle potenze individualiste che sono oggi disponibili per ognuno di noi.

In questo gorgo, dove le vecchie narrazioni sono dissolte (giustizia, partecipazione, egualitarismo, diritti, valori) si è innestato un singolare processo, dice sempre Krastev, di "emancipazione delle élite" che si sono affrancate dai vincoli ideologici, nazionali e comunitari.

In sostanza, dissolvendosi il sistema politico classista, nessuno deve dare più conto a nessuno e questa libertà eversiva viene usata da chi più ha, come appunto le elites politico-amministrative-finanziarie.

La rete è stata anche strumento di questo percorso.

Il suo impatto sui vecchi assetti socio economici ha liberato gli spiriti animali, privilegiando i motori dell'individualismo e della competizione e, soprattutto, dell'immediatezza e della velocità, che ha sconvolto ogni logica normativa: tutto in realtime, significa tutto senza regole.

Ovviamente questo non perché la rete sia strutturalmente anarchico liberista, ma perché non vi è stata un'intelligenza collettiva che ha spinto e negoziato la rete in una direzione diversa, come pure accadde alla fabbrica nel secolo scorso.

Obama si presentò come il punto più alto di una nuova mediazione sociale dove rete e innovazione potevamo essere piegati ad un progetto di inclusione e partecipazione sociale: la spinta al nuovo doveva essere il motore di uno sviluppo che avrebbe reso meno centrale la speculazione finanziaria.

Questo fu il valore aggiunto della sua candidatura.

Per questo Obama sbancò i vecchi equilibri schiantando la tradizionale visione illuminista di Hillary Clinton.

Ma tutto ciò si é perso lungo la strada, forse anche per una difficoltà oggettiva, un'immaturità culturale ad affrontare temi giganteschi quali quelli evocati.

Come scrivemmo appunto nel libro "Sono le news Bellezza", il We CAN non divenne WE GOV.

La mobilitazione dei nuovi produttori del sapere non riuscì a sostituirsi alle lobby dei ceti speculativi, per quanto illuminati, di Wall Street.

Obama giunto a Washington tentò di fronteggiare l'emergenza con un'operazione di tipica marca socialdemocratica, congiungendo aree di lavoro tradizionale - i metalmeccanici dell'Illinois- con le aree di capitalismo finanziario moderno.

Da qui il progetto della riforma previdenziale che premiava i lavoratori manifatturieri, con la delega totale a gestire la strategia economica a Larry Summer e al ministro del tesoro Geithner, rappresentanti delle agenzie finanziarie che ebbero la responsabilità nel botto del 2008.

Da questa gabbia Obama non è più uscito e i 28 milioni di componenti del popolo della rete che lo fece trionfare rimasero orfani e reagirono secondo la cultura della rete: ritirando ogni affidamento emotivo, negando la risorsa più preziosa in rete: l'ATTENZIONE.

Obama ora constata che è rimasto solo anzi che è stato omologato al vecchio establishment che difende le vecchie élite, emancipate da ogni controllo.

E questo proprio mentre sale, in tutto il mondo, la marea dell'ambizione di ogni individuo a competere con le proprie elites: vogliamo controllare oggi perché pensiamo di non saperne meno di chi governa, questa é la novità, che proprio Obama aveva intuito.

La lezione che si ricava dalla parabola di questo Gorbaciov all'americana, deve valere per tutti: non si gioca con le cose serie.

Il vaso di Pandora della rete non si può scoperchiare impunemente.

Non possiamo solleticare la voglia di modernità, di competizione, di ambizioni, di sapere, e poi rifugiarsi in formule tradizionali e gerarchiche che vedono al comando sempre i soliti padroni del vapore.

Oppure, come accade in Italia, gigionarsi con i movimenti digitali e poi, come è accaduto nel comizio di Vendola di sabato a Roma, rimanere rinserrati nei più vieti luoghi comuni sulla civiltà del lavoro e i diritti dei pensionati, mentre due terzi dei nuovi produttori chiede strategie di sviluppo e competitività globale.

Beato chi vive in tempi interessanti, dicono i cinesi.

E noi siamo beati perché viviamo nel pieno di un tornante da cui usciremo radicalmente mutati.

Ma il cambiamento non può essere lottizzato: non cambiano solo le cose che ci fanno piacere, cambia l'intero universo.

In un tornado non piove solo sulla casa del vicino.

E se persino Obama si bagna allora davvero non bastano gli ombrellini di Vendola a ripararci.

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