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Eccessi e obbrobri del social networking online

“Negli ultimi tempi è scoppiata la FaceBook-mania in Italia. Percentuali di crescita a tre cifre e fenomeno di costume: si contano i profili finti dei VIP, da Roma a Perugia, da Firenze a Torino è un moltiplicarsi di party, si fanno ricerche” - spiegava Eleonora Pantò l’altro giorno. Da Harvard invece Corinna di Gennaro dichiara che “Facebook sta cambiando la vita politica e sociale italiana” (entrambi i post hanno dovizia di dettagli e link per approfondire). Abbondano al contempo notiziole analoghe sulle maggiori testate nostrane online, quasi quotidianamente. Addirittura è in corso una “ricerca empirica” che richiede gusti, abitudini, impressioni dirette dei tanti utenti italici che per un motio o l’altro bazzicano sul sito.

Un’avanzata alla Attila dove è assai difficile trovare spunti critici, dimenticando o ignorando quanto sottolineano da tempo diversi analisti-utenti, dai “walled garden” allo sfruttamento dell’user-generated content alla mancanza pressoché assoluta di privacy (in questa pagina ulteriori dettagli e link, pur se non aggiornatissimi). Ma non era l’altro ieri che si osannava parimenti Second Life? Dove bisogna ci fossero a tutti i costi banche e agenzie immobiliari, cani e porci. In un batter d’occhio quel nome è scomparso dalle cronache italiche online, almeno da quelle che contano. E non era già successo lo stesso con twitter e compagnia bella, passando per MySpace, ovvio? E quando si diceva in giro che se non avevi un blog, azienda o individuo, non eri nessuno ma proprio nessuno? E quando tanta gente correva a mettere email e sito web sul proprio bigliettino da visita, pur se non erano attivi o non sapevano usarli? Un po’ di memoria storica non guasta certo, anche perché si tratta di pochi anni, o anche mesi talvolta. Eppure la moda non demorde, i media spingono, gli specchietti abbagliano e tutti o quasi ci cascano, una volta dopo l’altra dopo l’altra.

Se è innegabile che tali strumenti facilitino le comunicazioni “across the globe”, è decisamente eccessivo bersi la favoletta che Facebook connetta veramente la gente. Assai utile ricordare al riguardo una puntigliosa inchiesta apparsa sul londinese Guardian a gennaio, dove si ribadiva tra l’altro: “…it is a social experiment, an expression of a particular kind of neoconservative libertarianism”, mentre per gli inserzionisti “with Facebook Ads, our brands can become a part of the way users communicate and interact on Facebook,” senza dimenticare che tra i suoi finanziatori ci sono potenti “neocon activists” legati addirittura alla CIA. Pur se non tutti vogliono aderire a simili posizioni, per quanto documentate, è indubbio che troppi entusiasti high-tech cadono in una ridicola auto-referenzialità senza fine. Esaltando gli strumenti senza creare cultura. Valutando il semplice link e una parolina azzeccata come forma privilegiata di comunicazione (comunicazione?).

Analogo atteggiamento va rivelando, sempre in questi giorni, il tam-tam online sul prossimo lancio di Wired Italia. Iniziativa di per sé encomiabile, visto, appunto, l’andazzo cultural-digitale italiano nostrano. Solo che questo scorrere ad nauseam di report, incontri, foto e volti, battute, più o meno identici, rivela l’ennesima falla. Il marketing virale non paga quando viene sparato a getto continuo su blog, siti sociali o IM, e se proprio si vuole approffitare del virus della Rete, be’ allora basta gettare qualche seme e lasciarlo operare da solo, senza forzature che sfociano prima o poi nel classico effetto-boomerang - o, peggio, nella grande moda del giorno poi dimenticata quello successivo, di cui sopra.

Chiaro, basta staccare la spina, no? Chiudere i programmi, andare offline e farsi i file propri. Consiglio utile, di cui è bene far tesoro e pratica periodica. Ma il punto è un altro. Tutte quest’entusiamo pompato e artificiale danneggia la cyber-comunicazione tra individui e il senso stesso di Internet. Domani, tra qualche ora, quale sarà la prossima ondata-gadget-mania di cui non potremo fare a meno? In ogni caso non ne abbiamo e non ne avremo bisogno. Soprattutto se puntiamo davvero a contribuire a un mondo migliore, meno caotico e chiuso, più aperto e godibile per tutti. Dove appena un miliardo di persone ha accesso alle tecnologie digitali, sugli oltre sei miliardi che popolano il pianeta Terra, e con la forbice sociale in crescita ovunque, ben oltre il digital divide. E dove gli strumenti digitali disponibili, già oggi sovrabbondanti, vanno ancorati al concreto e ai contenuti (ottimo esempio, anche se ripetuto qui, è il circuito di Global Voices). Altrimenti creeremo di fatto l’antitesi del social networking online, facendone al contempo l’apologia. Nativi o immigrati digitali, non ci resta che rimanere con i piedi ben piantati per terra - pur avendo la testa in mezzo al cielo.

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