La penetrazione nell’apparato produttivo dei cosiddetti imprenditori mafiosi in svariati comparti dell’economia è un dato di fatto, come giustamente osserva Damiano, ma questa devastante penetrazione non dimostra che i mafiosi o i loro prestanomi siano degli imprenditori capitalisti, nè tantomeno che il fenomeno mafioso sia una sorta di sottoprodotto del capitalismo. Se così fosse allora bisognerebbe spiegare perché in Europa occidentale esso esiste solo in Italia. Chi pensa che la mafia esiste anche in Germania - ad esempio - confonde la criminalità organizzata con la criminalità mafiosa.
Per quanto riguarda la figura del cosiddetto "imprenditore mafioso", tutto è cominciato con Arlacchi, nel 1983, che con una sua personalissima interpetrazione delle parole di Joseph Schumpeter ha esteso la qualifica di imprenditori al mafioso, o al suo prestanome, impegnato in attività lecite. Questa estensione è possibile - dice Arlacchi - perché il mafioso introduce innovazioni nel processo produttivo, consistenti nell’applicazione del metodo violento nella conduzione degli affari dell’impresa e della gestione del personale. Nella stessa pagina (109) Arlacchi afferma: nel territorio di sua competenza l’imprenditore mafioso non ammette concorrenza, né contrattazione sindacale, inoltre usufruisce di capitali "facili" provenienti da estorsioni, usura e taglieggiamenti vari. Altro che imprenditori, quì ci troviamo di fronte a "monopolisti" che negano l’essenza stessa del capitalismo: libertà d’impresa, concorrenza e contrattazione sindacale.
Non si fa oziosa accademia. Il venir meno dei presupposti fondamentali del capitalismo blocca i processi innovativi e i conseguenti incrementi di produttività.
Un apparato produttivo dove vigono le regole violenti dei cosiddetti imprenditori mafiosi è destinato alla marginalizzazione nel mercato internazionale e al declino.