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Brutti, sporchi e cattivi

Nel sempre più stucchevole e indecente teatrino della politica nostrana, pare che il successo maggiore arrida soprattutto a quei teatranti che meglio sanno interpretare al ribasso i gusti attuali del pubblico o elettorato che dir si voglia.
 
Il quale – ben rodato dalla sconcezza e dalla plateale esibizione pubblica di sentimenti più o meno genuini, che un tempo la gente normale riservava alla propria sfera più intima e privata, di tanti programmi televisivi, in primis il “Grande fratello” e “Amici” - non si scandalizza più come un tempo per certe volgarità dei politici (tipo le esibizioni “mussoliniane” di virilità celoduristica, le parolacce, le barzellette e le battute sconce), un po’ per assuefazione un po’ perché – nella generale drammatica crisi di credibilità della politica - le apprezza addirittura come sintomo perlomeno della “veracità” del politico che le pronuncia.
 
Prendiamo i leghisti, ed in particolare il duo Calderoli-Salvini.
 
Guardateli, guardate Calderoli nei video di YouTube quando con un largo sorriso compiaciuto da bambino viziato mostra la maglietta anti Islam scatenando l’ira di Dio, anzi di Allah, a Tripoli e altrove…
 
O Salvini col ghigno mefistofelico stampato sul volto quando per esempio dice che “gli unici zingari che gli garbano sono quelli che compaiono nella Carmen di Bizet”.
 
Hanno dipinta sul volto la stessa espressione sadicamente soddisfatta che esibisce il grande Totò dopo una truculenta esibizione danzante in “Totò le mokò" o durante i tormentoni a cui, improvvisando, sottopone i suoi partners in scene memorabili come il duetto con l’onorevole Trombetta di “Totò a colori” (pare infatti che anche Antonio De Curtis provasse un gusto particolare nel recitare sullo schermo la parte del “cattivone”).
 
Quella sadica, ostentata soddisfazione, nei loro intenti, è uno sfottò nei confronti dei loro spregiatori, che probabilmente immaginano intenti a rodersi il fegato davanti allo schermo, oltre che il frutto della consapevolezza di fare da megafono a tanti che quelle cose le pensano, ma non sempre osano dirle.
 
Dunque, più la Lega viene definita xenofoba e razzista, rozza e volgare, più costoro gongolano, pregustando la prossima comparsata nelle ribadite vesti di “Cattivik” .
 
Quanto al capo dei capi, il Berlusconi, ha da tempo sdoganato ogni tipo di parolacce, ma col “discorso delle palle” a Bonn ha raggiunto l’apoteosi celoduristica, staccando nuovamente i concorrenti leghisti, anche se più che Cattivik costui recita ormai la parte di Sansone contro i filistei (e gli ipocriti alla Fini).
 
E l’opposizione?
 
Nel 2006, prima delle elezioni, commentando il “coglioni” rivolto ai potenziali elettori di sinistra, Michele Serra scriveva che “non solo gli intellettuali con la puzza sotto il naso, ma molti milioni di normalissimi cittadini (di sinistra, ma non solo), nell’opporsi a un siffatto leader, si sentono continuamente spiazzati dal progressivo incarognirsi del clima, dalla bassezza della polemica, dalla violenza puerile delle reazioni “con l’effetto naturale di sentirsi sempre più orgogliosamente, ma anche con alterigia crescente, “diversi” .

Più di recente lo stesso Serra si chiede perché si sia permesso a Bossi ed ai suoi accoliti di fare sfoggio impunemente di tutte le loro grezze e volgari intemperanze (minacce di pallottole ai giudici, di acqua di cesso al tricolore, di bergamaschi in armi contro non si sa chi, di cannonate contro i profughi), senza mai replicargli per le rime, ancora una volta, “per non abbassarsi allo stesso livello“. Sbagliato, sbagliatissimo: occorre fare capire a costoro – suggerisce il columnist o opinionista che dir si voglia de “la Repubblica” - che “all’occorrenza sappiamo essere volgari e arroganti anche noi”. Insomma, “quanno ce vo’ ce vo’ ” , come direbbero a Roma.
 
Anche perché tutto questo – sembra dire Serra - paga elettoralmente, come dimostra sul fronte opposto Di Pietro, che appare più credibile e autentico dei suoi concorrenti a sinistra perché anche lui “non le manda a dire” (senza però usare le parolacce di quegli altri, perché da buon meridionale conosce la pesantezza triviale di certi termini specie se pronunciati in qualche dialetto del Sud). Non a caso Fini, che non perde occasione per smarcarsi dal Berlusca e dalla Lega, sembra aver raccolto a fine novembre l’appello di Serra col suo famoso: “Uno stronzo chi è razzista". In effetti, un bello “stronzo!” gridato in diretta, a squarciagola e con tutti i sentimenti, in faccia a qualche esponente leghista o al Berlusca forse varrebbe più – sul piano del consenso - di tutte le stucchevoli esibizioni televisive degli esponenti del PD, dove battibecchi furiosi si alternano ad ammiccamenti vari come nelle migliori sceneggiate napoletane, lasciando interdetto l’elettore democratico.
 
Ma forse questa attitudine alla Serra, che finisce per assecondare la immoralità della morale corrente, è meglio lasciarla agli intellettuali che si sentono ancora gramscianamente “organici” ad un partito e sensibili perciò alle sue fortune elettorali.
 
A me continua a sembrare che la parte di un intellettuale debba essere invece quella di nobile, seppur sterile testimonianza controcorrente, secondo la lezione montanelliana e pasoliniana (definiti “i grandi diseducatori” proprio perché si opponevano alla morale in voga).

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