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Sacconi e il grande complotto

Per Maurizio Sacconi, dopo il “colpo di stato” del 1992, le “borghesie ciniche ed autoreferenziali” (sic) imposero la “moderazione salariale”, con gli accordi di luglio 1993. Per colpa di quella concertazione, sempre secondo il nostro psichedelico ministro, i salari e la produttività italiana furono condannati a restare bassi e stagnanti. E soprattutto, “non c’era bisogno di moderazione salariale perché l’inflazione era bassa rispetto al decennio precedente”. Rileggere il passato con le lenti dell’attualità politica è sempre un simpatico gioco di società. Ma tra un anacronismo ed un’ucronia, giova ricordare a Sacconi (e non solo a lui), che nel 1993 l’Italia era appena uscita da una crisi drammatica, quella dell’estate 1992, culminata con l’uscita della lira dal sistema monetario europeo, e necessitava di rientrare il prima possibile nel processo di convergenza all’euro. Il dato di inflazione va poi letto in senso relativo, di differenziale con i paesi con i quali confrontiamo, e non assoluto, e il nostro differenziale, nel 1993, necessitava di ridursi pena l’impossibilità di tornare nello Sme ed una inesorabile e neppure troppo lenta deriva sudamericana.


Certo, la concertazione è stata la strada più rapida e “comoda” da percorrere, ma forse l’unica, viste anche le condizioni di persistente tensione sociale nel paese. Col senno di poi è stata certamente una pessima idea, ma molte altre cose di questo paese lo sono state, non ultimo il continuo baloccarsi con svalutazioni “competitive” del cambio della lira che hanno tenuto il paese in una condizione di persistentemente bassa crescita della produttività, rinviando il momento delle ristrutturazioni di prodotto e processo. Questa sarebbe stata una considerazione razionale da compiere, aldilà delle grandi trame della “borghesia cinica ed autoreferenziale”.

In Sacconi esiste questo persistente strabismo politico che lo porta di volta in volta a rileggere la storia accusando le Oscure Forze della Conservazione (manco fosse un antimperialista fuori tempo massimo), criticando l’assenza di riformismo dei governi precedenti, mentre proclama solennemente che nulla verrà toccato dell’attuale impianto di welfare. E quanto alla epocale detassazione dei premi di produttività e degli straordinari, di cui Sacconi è stato uno degli artefici, non pare abbia lasciato tracce negli annali di storia economica del paese, ed è piuttosto improbabile che possa essere insegnata nelle business school come success story. Forse perché, tralasciando i sospetti di accordi tra imprese e dipendenti per sottrarre imponibile al fisco, ha assai poco senso detassare gli straordinari durante una recessione. Per non parlare della risibili soglie di stipendio che danno accesso alla detassazione, che fanno pensare più ad una manovra di sostegno indiretto ai redditi da lavoro dipendente più bassi che ad una misura di rilancio strutturale della produttività. Ma visto che l’iniziativa era “sperimentale”, sarebbe lecito attendersi i dati a consuntivo dell’”esperimento”, per capirne di più. Quando ce li comunica, ministro?



(Per chi ha fretta, la tesi cospirazionista parte dal minuto 15)

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