Parlar chiaro >
Per cogliere il nocciolo del
dibattito sul reintegro (art.18) basta riflettere sugli effetti pratici che ne
conseguono. Da ricordare che il licenziamento è l’atto voluto e deciso dal
datore di lavoro con cui risolve in modo definitivo il rapporto con il
dipendente.
Secondo la vigente normativa, in caso di ricorso, il DATORE di
lavoro è chiamato a “convincere” il Giudice della sussistenza di fondate e
gravi ragioni che giustificano sia il provvedimento comminato, sia
l’impraticabilità di un eventuale reintegro.
Veniamo alla formula caldeggiata
da RENZI. I casi di possibile ricorso si riducono a due. Non solo.
Sarà l’EX DIPENDENTE a dover “convincere” il Giudice di essere vittima di un atto “discriminatorio”
oppure di un provvedimento disciplinare immotivato e/o spropositato.
In pratica
è un ribaltamento di ruoli e posizioni. E’ la parte soccombente (la più debole)
che, per avvalersi del reintegro, è tenuta a dimostrare di essere bersaglio di
un “sopruso”.
DIFFICILE altresì pensare che il Giudice si faccia promotore di
un’indagine mirata ad accertare fino in fondo la realtà dei fatti.
Questa è la
sostanziale “distanza” che separa le due versioni.
Altro che simbolo
ideologico, conservatorismo, miopia, memoria senza speranza, ecc..
Il tempo non
cancella le Voci dentro l’Eclissi esempio di coerenza, responsabilità …