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“Siamo Italiani”: l’Italianità e l’Italianologia

A chi piace affondare le proprie pupille sulla “fotografia dell’anima” nuda degli italiani, consiglio la lettura del libro “Siamo Italiani”: la vivace, penetrante e ricca antologia di David Bidussa (Chiarelettere, 2007), uno “storico sociale delle idee” che sembra amare profondamente la lettura e il suo lavoro di ricerca.

Attraverso la raccolta degli scritti più significativi di alcuni dei più importanti scrittori e personaggi italiani, Bidussa riesce a delineare i concetti di Italianità e di Italianologia. Infatti, per capire l’Italianità bisogna esaminare “il prodotto di una storia, che è fatta di molte cose: di retorica, di auto immagine, di autocritica, dei tentativi concreti di individuare dei territori culturali e mentali capaci di imprimere un nuovo stile di vita”. L’Italianologia è invece “la retorica – spesso lamentosa, impermalita e accigliata – che attraversa tutta la riflessione sull’Italiano e il cui effetto è creare e radicare una convinzione” (Bidussa).

Per comprendere meglio la varietà della documentazione raccolta, citerò almeno una breve frase rappresentativa del pensiero di quasi tutti gli autori presenti:

Giorgio Gaber: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.”

Michele Serra: “Sono italiano da ormai più di cinquant’anni e mi sono fatto l’idea che tra potere e società non ci sia alcuna differenza di calibro etico. Elettori che considerano la furbizia una virtù eleggeranno politici che sono il loro specchio fedele… Il qualunquismo è esattamente questo: individuare nel Palazzo un comodo e vistoso capro espiatorio” (la Repubblica).

Dario Fo: “Se ci dicono: quello ruba, quello truffa, quello frega, noi alziam la spalluccia e da idioti sorridiam. Perché siamo italioti…”

Giuseppe Prezzolini (saggista): “L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono”. “Ci sono fessi intelligenti e colti, che vorrebbero mandar via i furbi. Ma non possono: 1) perché sono fessi; 2) perché gli altri fessi sono stupidi e incolti, e non li capiscono”.”L’italiano sarà un prodotto dell’Italia, mentre l’Italia doveva essere un prodotto degli italiani” (le migliori descrizioni del carattere nazionale sono a mio parere quelle di Prezzolini, anche se alcune risultano limitate dal periodo storico in cui sono state formulate).

Curzio Malaparte (scrittore, giornalista e diplomatico): “Il fatto è che in Italia ogni cosa puzza di servitù e coloro che parlano di mutamenti, di rivoluzioni o di leggi sono proprio quelli stessi che vanno in cerca di padroni da servire”.

Ernesto Rossi (politico antifascista e cofondatore del partito radicale): “Si vede proprio che i grandi industriali sono convinti che l’opinione pubblica italiana ancora trangugia qualsiasi beverone… E’ vero: ora c’è il fastidio della libertà di stampa; ma è una seccatura da poco. Dov’è la stampa indipendente in Italia?”

Giulio Bollati (editore e saggista): “… l’azione livellante delle comunicazioni di massa… proiettano sul telone del futuro l’ipotetica figura di un italiano standard… che si confronta con le persistenti varietà, difformità, contraddizioni dell’italiano d’oggi”. L’accozzaglia di popoli, di Stati, d’istituzioni e di gloria messi insieme dal caso e dal fatto che l’Italia è una penisola circondata da molte isole, divenne un grande problema politico tra Settecento e Ottocento, le cui ripercussioni storiche arrivano fino ai nostri giorni.

Benedetto Croce: “Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia” (questa secondo me è un pensiero un po’ troppo fatalista: io invece mi schiero dalla parte degli idealisti, dei miglioristi e dei possibilisti: non bisogna porre limiti alla provvidenza delle mani futuro).

Giacomo Leopardi: “…che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni”.

Ennio Flaiano (giornalista e sceneggiatore): “Sospirando ammette che siamo in un paese di ladri: si difenderà col furto. Dai massacri che hanno insanguinato la sua terra, ha cavato l’insegnamento del suo diritto alla vita comoda, difesa dalle leggi e dalla polizia. Dice di non avere idee politiche perché gli sembra inutile averne in un’epoca in cui le armi permettono ad un’idea armate di sopraffarne altre mille disarmate. Se gli osservate che nessun arma può uccidere un’idea, vi risponderà che il più piccolo temperino può uccidere però un uomo: lui”.

Indro Montanelli: “E’ vero che il commercio ha le sue esigenze e che le idee, in Italia, si smerciano solo se incartate in cosce e tette”. Anche loro ci andavano “appunto perché le ragazze-squillo erano lì ad assolvere nella loro vita la necessaria e altamente encomiabile funzione di valvola di sicurezza”. E di sfogo: l’uomo è uomo, e siccome i virtuosi sono ben pochi sulla faccia della terra e una prostituta non mette troppo in pericolo gli equilibri familiari e cittadini, è meglio così rispetto ad un’amante coltivata sui luoghi di lavoro. Io ricordo anche quello che disse una donna famosa: “per abolire la prostituzione bisognerebbe abolire gli uomini”. Un uomo invece ha detto: “abolire la prostituzione è un atto contro i diritti dell’uomo”.

Gianni Brera (giornalista): “La grande sfornata di piccoli borghesi è venuta con la prima guerra mondiale, allorché si trattava di far ufficiale chiunque accettasse,per ambizione, di lasciarsi accoppare al posto dei “meglio” in servizio permanente… con l’inconveniente che non avevano né terra né stalle. Così i superstiti comandati da Benitone – maestro elementare – si sono impadroniti del paese ma non ha saputo restare autonomi: quasi tutti ignoranti e senza miti, hanno accolto i miti dei “meglio” e si sono confusi con loro”.

Bettino Craxi: “I partiti… hanno ricorso e ricorrono al’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale… Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro” (durante il discorso alla Camera dei Deputati nessuno si alzò).

Leonardo Sciascia (scrittore e saggista siciliano): “una definizione della mafia, ho detto che essa era una associazione a delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si poneva come intermediazione parassitaria imposta con mezzi di violenza fra la proprietà ed il lavoro, tra la produzione ed il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. “Non credo che i ministri dell’Interno debbano essere altoatesini, credo però che debbano comportarsi come tali”.

Enrico Berlinguer: “I partiti oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati… La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti... ciascuna con un boss e dei sotto-boss… I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo. .. gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, le università, gli ospedali, la Tv”.

Luigi Einaudi (economista e Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955): “Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati… noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnati occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni necessarie per gli esami di Stato. Nozioni e non idee, appiccicature mnemoniche e non eccitamenti della curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo…” Il danno sta anche “nell’inganno perpetrato contro di essi, lasciando credere che il pezzo di carta dia diritto a qualcosa, e cioè, nell’opinione universale, all’impiego pubblico sicuro o alla professione tranquilla”.

Arturo Carlo Jemolo (giurista e storico): “…l’italiano è conformista, ha la preoccupazione che non sia intaccato il prestigio di classi o d’istituti. Mormorazioni in privato contro il superiore, contro il potente, quante se ne vuole; ma nulla che scalfisca l’istituzione in astratto”. Ma forse non è del tutto vero…

Ruggiero Romano: (storico economico): “In realtà si è prigionieri di questo stesso capitale… ragioniamo in termini di durata del lavoro, difesa dell’impiego, conquiste salariali. Ma non si ragiona in termini di progresso reale, di avvenire. Il grande dibattito tra destra e sinistra è quello del più (lavoro, salario, vacanze, ecc.) o meno… Ma la logica, di fatto, è la stessa, sia a destra che a sinistra”. Nella vita alla fine quello che conta, è quello che si fa in rapporto a quello che si dice. E quasi tutti non fanno nulla di quello che dicono.

Carlo Levi (scrittore): In Italia ci sono due grandi forze simboliche, il Comunismo e il Vaticano, e ci sono due gruppi sociali, i produttori (operai, agricoltori, creativi, imprenditori e donne) e i burocrati (politici, militari, impiegati,magistrati, bancari), e ogni burocrate (chi dipende e comanda, chi ama e odia le gerarchie) ha bisogno di un produttore per vivere. “Mentre gli altri Stati si preoccupano della Giustizia, e dell’Uguaglianza o della libertà, il nostro è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte, cioè, i burocrati. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non ne fanno parte: i produttori. E ora, alla Carità laica dello Stato italiano aggiungiamo l’ultimo tocco: il crisma della Carità cristiana. Così l’opera sarà perfetta, e il primato incontestabile”.

Gaetano Salvemini (storico e politico): “La verità è che, dove tutti sono responsabili, ciascuno è responsabile per la parte che gli spetta, in proporzione della sua capacità a fare il bene o a fare il male… E quand’anche gl’italiani, che sono fatti diversamente, fossero non centomila, ma appena mille, cento, dieci, uno solo, quell’uomo solo dovrebbe tener duro e non mollare. E sarebbe dovere approvarlo, incoraggiarlo, sostenerlo, e non dirgli: pensa alla salute… chi sa? Quell’uomo solo potrebbe diventare, quando meno lui stesso se l’aspetta, centro d’attrazione e di cristallizzazione per molti altri”.

L’effetto finale del libro è quindi quello di focalizzare l’attenzione sul nocciolo duro dell’attuale identità italiana: l’Antipolitica. La difesa degli interessi personali e l’incapacità di pensare anche all’interesse della società, che caratterizza la peggiore Antipolitica, sembra dovuta principalmente a questi fattori:

1)  un diffuso cinismo (personale e di gruppo: le relazioni sono centrate sul materialismo);

2)  l’assenza di una classe dirigente (con formazione specifica e con le necessarie doti morali);

3)  l’assenza di una vita interiore (si legge poco e si guardano troppi programmi televisivi superficiali);

4)  il familismo amorale (Banfield, 1976) in opposizione al senso civico, ovvero la prevalenza della famiglia sulle istituzioni dello Stato;

5)  il trasformismo inteso non solo come filosofia del voltagabbana, ma anche come procedura tesa all’accantonamento del conflitto sociale (Bollati 1993 e 1996):

6) La furbizia, un tratto che si fonda sull’idea che la dissimulazione, il doppio gioco, l’allusione costituiscono delle risorse che consentono il superamento delle avversità e delle difficoltà.

 

Per approfondimenti "sull’evoluzione dell’Italianità" c’è il sito: www.chiarelettere.it (Blog/Interviste/Novità)

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