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Commento di Marina Serafini

su Incontri traumatici e condizione umana


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Marina Serafini Marina Serafini 29 marzo 2020 03:20

Carissimo, il termine trauma, etimologicamente parlando, riporta alla lesione, alla ferita. Un incontro, certo, ma di tipo particolare. Un incontro che si apre alla possibilità estrema, che è la morte. Proprio quello che sta avvenendo in questi giorni terribili. Parlare di un nemico sconosciuto non è certo un modo semplicistico di descrivere la violenza cui siamo attualmente soggiogati: é uno dei modi, ed è anche appropriato. L’incontro aiuta, agevola e a volte forza la necessità di cambiamento. Spesso la impone. In questi tempi il trauma impone il cambiamento radicale: acceso/spento. Concordo con lei nel sostenere, alla lunga, che il cambiamento é vita, che le appartiene costruttivamente, ma il cambiamento definitivo, quello che impedisce ogni altro possibile cambiamento non lo é. Non si tratta più di vita, ma della sua esclusione: una uscita dal gioco, una posizione che é addirittura altro dallo spettatore. È silente assenza. E se é vero quanto dicono certuni filosofi, che la morte é sempre la morte degli altri, una esperienza che possiamo comprendere soltanto per via indiretta, io penso che invece la esperiamo sul campo anche attraverso gli altri. Attraverso l’assenza dei nostri cari, che da un giorno ad un altro - con o senza preavviso - spariscono, non ci sono più. Esclusi dal gioco. Ecco un aspetto del trauma che resta lesione, che impone una variazione, ma una variazione che nei vivi - laddove non hanno le forze - si muta nel cambiamento estremo , sia di carattere fisico piuttosto che mentale. Ho personali esperienze di un trauma che ha imprigionato la mente di un uomo, rendendolo vivo solo al passato trascorso, e morto al presente: assente. Stiamo vivendo ogni giorno esperienze di vita che in pochissimi giorni si muta in assenza totale, una assenza fisica di chi cade, e spirituale in chi ha vissuto la caduta di altri. In questi ultimi rimane un vuoto che nemmeno il ricordo riesce a colmare. Ha ragione nel sostenere che non è facile dar senso alla vita umana, ma dico per certo che non tutti hanno o trovano la forza per reagire ad eventi sconvolgenti che la attraversano. Per questi, dunque, non si dá evoluzione ma dolore, stasi, regressione, se non addirittura la fine del viaggio. Certamente lei si riferiva all’umanità, ai grossi numeri, ma io oggi vedo solo grossi numeri di una infinità di individui, ognuno con la propria storia, connessa con la singola storia di altri. Il termine astratto che allude all’umanità mi rimanda a un futuro infinito, che si imbarca verso un tempo che non potrò mai conoscere, perché io sono adesso.


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