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Commento di Alberto

su Quando i clandestini eravamo noi


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Alberto 4 luglio 2009 15:54

Qualcuno dei commentatori non ha capito (o ha volutamente travisato) lo spirito dell’articolo. Non è mai piacevole quando ci vengono ricordate le nostre magagne, soprattutto quando siamo impegnati a evidenziarne di uguali, attribuite ad altri. In sostanza, il punto non è se sia corretto parlare di "clandestini", ma quanto i comportamenti dei nostri connazionali di un tempo, a volte neanche troppo lontano, dal punto di vista dei paesi di destinazione fossero simili a quelli che oggi attribuiamo ai nostri immigrati. Non ci fa piacere? Ovvio e giusto. Ma neanche ai nordafricani, albanesi, rumeni o sudamericani che sono oggi con noi fa piacere essere accomunati tutti nello stesso stereotipo: gli immigrati non sono tutti uguali, come non lo erano i nostri connazionali. Ma ci sono altri elementi da considerare: l’ignoranza, la povertà e la solitudine. L’ignoranza, che impediva di procurarsi lavori più dignitosi, rendeva i nostri emigranti più deboli e più a rischio di "devianza" e li costringeva a una povertà che accettavano perché era simile a quella che già pativano a casa, ma che agli occhi di popoli più benestanti era qualcosa di repellente. La solitudine portava alla necessità di "fare branco" fra connazionali che si capivano, ma anche alla ricerca di compagnia femminile: di solito, ad emigrare erano giovani maschi, con le normali esigenze della loro età, spesso fraintese o gestite male da loro. Capire queste cose ci serve a capire un po’ meglio gli stranieri che oggi sono qui da noi, e che non sono dei mostri più di quanto non lo fossero i nostri nonni.


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