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Il terrorismo islamico esiste. Qui e là

Dieci mesi fa: Corriere della Sera, 23 novembre 2013, titolo: “I due leoncini di Gaza: così si spegne la speranza”; a firma di Francesco Battistini che concludeva in sintesi “I due cuccioli di leone, nati nello zoo di Gaza, sono morti poco dopo la nascita”.

Storia lacrimevolissima non alleviata dal fatto che i combattivi nomi dati ai leoncini erano Fajir, come il missile di fabbricazione iraniana sparato verso Gerusalemme durante il penultimo conflitto fra Hamas e Israele (2012) e Sajel, nome di un’operazione militare della milizia islamica contro lo stato ebraico.

Ma la vera questione dell’articolo in realtà non erano i leoni.

Ce lo diceva un sommarietto piuttosto evidente nella pagina stampata (e si sa che la gente legge titoli, occhielli, sommari e poco più). Diceva “L'embargo israeliano non è mai stato così duro, chiusi i tunnel del Sinai e il valico di Rafah”.

Che cosa ci poteva leggere l’ignaro lettore? Per chi parla l’italiano ci si leggeva che, per rendere ancora più duro l’embargo verso Gaza, Israele aveva chiuso i tunnel e il varco di Rafah. Molti lettori del Corriere si saranno fatti questa idea. Conclusione ovvia: l’assedio di Israele non solo continuava, ma si stava ancor più incattivendo.

“Assedio israeliano” che tuttora è la definizione data (vedi l’abituale Michele Giorgio sul Manifesto) allo status della Striscia, “scordandosi” con sorprendente pervicacia del valico egiziano di Rafah.

Leggendo però l’articolo si poteva trovare la frase iniziale del sommario “l'embargo israeliano non è mai stato così duro...” che però continuava così “...denuncia Filippo Grandi, responsabile dell'agenzia Onu per i palestinesi (l'Unrwa); nella Striscia non entra più un mattone, le esportazioni sono bloccate, i prezzi sono triplicati”.

La frase del funzionario dell’ONU finiva qui. E denunciava un restringimento dei permessi israeliani all’importazione di materiali per l’edilizia e all’esportazione.

Nell’articolo a firma del giornalista invece si trovava anche la seconda parte del sommario citato: “A colpire al cuore Hamas, stavolta, sono i generali del Cairo che fanno pagare l'amicizia coi deposti Fratelli musulmani: hanno chiuso il valico di Rafah e sigillato i duemila tunnel nel Sinai, quelli che portarono dentro anche i due leoni, lasciando disoccupati i trentamila palestinesi che ci campavano e infliggendo all'economia locale una perdita di 230 milioni di dollari al mese”.

Due frasi diverse, dette da persone diverse sono state condensate nel sommario fino a dare una comunicazione inventata di sana pianta: non era stato Israele a chiudere i tunnel verso il Sinai né il valico di Rafah come si poteva leggere nel sommario indicato.

Ovviamente a farlo è stato l’Egitto che, almeno dal 2005, ha in mano le chiavi di quel valico che viene sigillato davvero - indipendentemente dalle aperture a singhiozzo del valico verso lo stato ebraico - solo quando l’Egitto lo vuole. L’Egitto di quei generali golpisti che avevano tutte le intenzioni di “ammorbidire” a modo loro, cioè manu militari, la Fratellanza Musulmana di Gaza, parente stretta di quella fratellanza egiziana di cui i militari sono nemici giurati.

Una perdita di 230 milioni equivale a 2 miliardi e 760 milioni di dollari l'anno. Se si tiene conto che il PIL della Striscia è calcolato in 6,6 miliardi di dollari, si capisce la dimensione dello shock economico derivante dalla decisione egiziana.

Dopo la decisione di un anno fa di chiudere i duemila tunnel che mantenevano in qualche modo vitale l’economia di Gaza, Hamas ha capito che non avrebbe potuto reggere a lungo e ha tentato la manovra dell’alleanza tattica con l’ANP per uscire dall’isolamento in cui era finita dopo la sconfitta della Fratellanza egiziana. Manovra indigeribile per molti evidentemente.

Infatti, appena il tempo di pensarlo e “qualcuno” ha rapito e assassinato tre adolescenti israeliani (ieri si diceva una cellula autonoma di terroristi - come li vogliamo chiamare? - abbastanza indipendenti da Hamas da permettere all’organizzazione islamista di dichiararsi a gran voce innocente; oggi notizie di stampa ci dicono invece che dietro all’omicidio c’era davvero Hamas, come il premier israeliano aveva dichiarato da subito).

Quel qualcuno - che sia indipendente o che sia l'ala militare di Hamas a questo punto conta poco - ha fatto lo sgambetto al progetto di governo unico (al punto che non sono mancati i soliti deliri complottisti che insinuavano una mano israeliana dietro il plurimo assassinio dei tre ragazzi) e ha provocato una guerra che il governo di Gerusalemme era titubante a radicalizzare con un intervento di terra (vedi la quasi-crisi provocata dal superfalco Lieberman).

La motivazione del nuovo lancio di razzi è stato l'atteggiamento provocatorio di Israele che in pochi giorni, durante la caccia agli assassini dei ragazzi ebrei, ha ri-arrestato decine di militanti di Hamas, liberati a suo tempo in cambio di Gilad Shalit, il caporale tenuto ostaggio a lungo e simbolo di una vittoria vantata proprio da Hamas. Caccia che aveva a sua volta provocato scontri e numerosi morti in Cisgiordania.

La conclusione era prevedibile e, come sempre, drammaticamente sanguinosa; in ampia misura per la gente di Gaza. Un nuovo scontro militare duro e, sembra, non ancora finito. Ennesimo conflitto assolutamente inutile che lascerà più o meno le cose come stanno fino al prossimo round (ma chi ci è morto ha perso l'unica vita che aveva e non avrà più altre chance future, chissà se lo capiscono i caporioni di Hamas e di Israele).

Nel frattempo si è acceso il dibattito tutto italiano - ma limitato a M5S e area della sinistra radicale, gli altri hanno idee decisamente meno sfumate - su chi è un "terrorista" e chi un "resistente" (parlando del Califfato islamico, ma pensando anche - sotto sotto - ad Hamas). Vedi Angelo d'Orsi sul Manifesto.

Ci pensa Giuliana Sgrena a rispondergli per le rime, di nuovo sul Manifesto. Lei sa che cosa vuol dire essere nelle mani di un terrorista (non di un resistente), e mantiene la mente lucida con poca ideologia dentro. Mentre altri delirano in piena scioltezza, scrive senza mezzi termini: "Il terrorismo islamico esiste. L'Isil non è Robin Hood".

Poi, dal momento che sulle spoglie del vecchio Iraq, devastato dal giovane Bush (ma senza dimenticarsi per favore che Saddam Hussein massacrava senza pietà interi villaggi) e smantellato da un arrogante sciita di nome al Maliqi, nasce l’esercito del Califfato dell’Iraq e del Levante (Isil) ora diventato ISIS (Islamic State of Iraq and Syria), il complottismo dei duri e puri si ferma un attimo a pensare, perplesso. Solo un attimo, poi finalmente trova la “quadra”: dietro l’ISIS c’è la Lobby Sionista

E questo spiegherebbe tutto (nel più semplice, quanto contorto ragionamento).

In realtà l’IS e il suo esercito nascono da una costola di al Qaeda che a sua volta nacque nell’ambito dei mujaheddin che combattevano in Afghanistan contro l’invasione sovietica ampiamente foraggiati dall'occidente. E i mujaheddin li fondò un profugo palestinese, di cui in realtà si sa poco, Abdallah Yusuf al-Azzam, nato a Jenin e fuggito dopo la guerra dei Sei Giorni (scoppiata perché l'Egitto fu sobillato dall'URSS con false informazioni, dicono gli archivi sovietici da tempo aperti agli storici).

Alla fine il povero Abdallah saltò in aria insieme alla famiglia in un attentato di cui non si sono mai scoperti gli autori (ma potete ben immaginare la quantità di nemici che il nostro si era fatto nella sua non lunga vita); mentre al Qaeda punì gli americani, rei di aver calpestato il sacro suolo arabo durante la prima guerra del Golfo, con l'abbattimento delle Twin Towers, vero momento di passaggio dalla resistenza dei mujaheddin al terrorismo internazionale (che non essendo più assimilabile ad una "resistenza", per questo necessitava di un'altra buona dose di complottismo alla Giulietto Chiesa per stornare le colpe dall'oriente "resistente" all'occidente "imperialista").

Ma, scrive The Nation, periodico della sinistra a stelle e strisce: "The “war on terror” has failed because it did not target the jihadi movement as a whole and, above all, was not aimed at Saudi Arabia and Pakistan, the two countries that fostered jihadism as a creed and a movement". ("La guerra al terrorismo è fallita perché non ha visto l'insieme del problema e non ha preso di mira Arabia Saudita e Pakistan, i due paesi che maggiormente hanno favorito lo jihadismo come credo e come movimento".)

Solo che Arabia Saudita e Pakistan non sono obiettivi perseguibili davvero nella lotta al terrorismo. Per tanti e comprensibili motivi (qualcuno di voi è disposto a tornare alle carrozze a cavallo e alla luce delle candele nel prossimo futuro? O a veder circolare le atomiche pakistane qui e là nel mondo in mano a individui di tutti i tipi?).

Al più, magari fra un po', vedremo un nuovo, imprevedibile asse tra il siriano Assad e l'americano Obama in versione anti Califfato. 

E questo cambierà di nuovo le carte in tavola sia negli ambienti della "alta" politica internazionale che in quelli "bassi" della politica da bar sport.

 

 

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