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L’Israele che dice no. I refusenik

In Israele c'è un nome per definirli, sono i refusenik. Possiamo chiamarli anche obiettori di coscienza. Sono quelli che si rifiutano di servire per le Forze di Difesa Israeliane all'interno dei territori occupati. I refusenik rappresentano un fenomeno di grande rilievo simbolico, in un paese dove l'esercito costituisce la colonna portante dell'architettura sociale. Le ragioni del rifiuto possono essere di ordine religioso o politico, in alcuni casi sono legate e al rifiuto della politica militarista e di occupazione dei territori palestinesi, portata avanti dai governi di un paese perennemente mobilitato contro le minacce del terrorismo e dei nemici esterni. Non sono ben visti gli obiettori in Israele. Il termine ebraico mishtamtim, renitente, significa anche imbroglione. Per alcuni sono traditori, per lo stato sono imboscati da punire con il carcere.

Bisogna avere coraggio per essere un refusenik. Servire nell'esercito è un passaggio obbligato nella vita di ogni israeliano, è il primo passo nell'età adulta e la spinta necessaria per entrare a testa alta nella vita civile e nel mondo del lavoro. Ma in Israele non si smette mai di essere soldati. La durata del servizio militare varia in funzione dell'età e del sesso, ma chi già ha adempiuto al proprio compito resta un riservista e può essere richiamato alle armi, in caso di necessità.

Qualcuno, però, decide di rifiutarsi. E' successo anche due giorni fa, quando il Washington Post ha pubblicato una petizione firmata da 51 riservisti che hanno deciso di non servire più nelle forze di difesa israeliane. Gli ex-militari si oppongono oggi all'esercito, al suo ruolo nella società e alla legge israeliana di proscrizione obbligatoria.

La scelta è motivata su diversi piani. Pesa l'opposizione dei firmatari all'operazione Protective Edge, che ha fino ad oggi causato la morte di oltre 800 palestinesi, per l'80% civili. Ma non si tratta solo del rifiuto dell'occupazione e della campagna militare in corso. La petizione si oppone al processo inarrestabile di militarizzazione della società israeliana e alle politiche discriminatorie operate dall'IDF:

“Ad esempio il modo in cui le donne sono spesso relegate alle posizioni più basse, in ruoli di segretariato. O il sistema di screening che discrimina contro i Mizrachi, gli ebrei di origine araba, facendo si che siano sotto-rappresentati nelle unità di élite più prestigiose. Nella società israeliana, la posizione assunta nell'esercito e l'unità di appartenenza hanno una ricaduta importante sul percorso professionale cui si potrà aspirare nella vita civile”.

Per i sostenitori della petizione non è possibile scindere l'operazione militare attualmente in corso dagli effetti che la militarizzazione costante produce sulla realtà sociale israeliana:

“In Israele la guerra non è una semplice scelta politica; è qualcosa che si sostituisce alla politica. Israele non è più in grado di immaginare una soluzione a un problema politico se non in termini di forza fisica, senza domandarsi se ciò determinerà una spirale di violenza mortale senza fine. E quando i cannoni sparano, nessuna critica può essere ascoltata.”

Non si tratta solamente del rifiuto di indossare l'elmo e di imbracciare il fucile. Per i 51 promotori dell'appello occorre contrastare l'intero apparato militare e rifiutare qualunque ruolo esso voglia assegnare ai cittadini israeliani:

“Se esiste dunque una ragione per opporsi alle operazioni di combattimento a Gaza, esiste anche una ragione per opporsi all'apparato nel suo insieme.” (…) “I palestinesi della striscia di Gaza e della Cisgiordania sono deprivati dei loro diritti umani e civili. Vivono all'interno di un sistema legale diverso da quello dei loro vicini ebrei. Questo non dipende solo dalle colpe dei soldati che operano nei territori. Non solo le truppe dovrebbero rifiutarsi. Molti di noi hanno operato in ruoli di supporto logistico e burocratico; lì abbiamo capito che l'esercito, nel suo complesso, contribuisce a implementare l'oppressione sui palestinesi”.

L'appello denuncia anche i molti volti della discriminazione, all'interno dell'apparato militare. Le soldatesse subiscono una discriminazione di tipo strutturale e sono spesso vittime di molestie sessuali. Ma è la rassicurante immagine del “buon israeliano” a essere messa in discussione, l'essenza stessa dell'auto-percezione sociale:

“In realtà egli trae il suo potere dall'assoggettamento dell'altro. Il ruolo centrale dell'esercito nella società israeliana e l'immagine ideale che produce, cooperano per cancellare la cultura e le istanze dei mizrachi, degli etiopi, dei russi, dei drusi, dei palestinesi, degli ultra-ortodossi, dei beduini e delle donne”

L'appello si conclude così:

“Contro gli attacchi a chi resiste alla coscrizione, noi supportiamo i resistenti (…) e tutti coloro che non possono servire nell'esercito per ragioni di coscienza, di situazione personale o di benessere economico”

La storia dei refusenik non comincia oggi e l'appello pubblicato sul Washington Post è solo l'ultimo atto di un dibattito che scuote Israele da molti anni. Già nel 1970 un gruppo di studenti superiori si era opposto alla occupazione della Cisgiordania, rifiutando di rispondere alla leva. Nell'87, sempre in ambito scolastico, nacque il movimento degli Shministim, che oggi conta 3000 attivisti e periodicamente torna alla ribalta delle cronache per la condanne inflitte ad alcuni dei suoi membri renitenti alla leva. Nell'82, all'indomani dello scoppio della guerra del Libano, un gruppo di riservisti fondò il movimento Yesh Gvul, rifiutando di prendere parte al conflitto.

In tempi più recenti, due episodi di disobbedienza militare hanno fatto molto scalpore, sia in Israele che all'estero.

Il 24 settembre del 2003 venne pubblicata la “Lettera dei piloti”, firmata da 27 piloti dell'aviazione tra riserve e operativi. L'iniziativa fece notiizia anche perché tra i firmatari spiccava il nome di Yiftah Spector, pilota molto noto in Israele. Nella lettera i veterani, pur ribadendo la loro lealtà al paese e alle forze armate, si rifiutavano si “prendere parte ad attacchi aerei contro i contro obiettivi civili”. “Queste azioni”, si legge nella lettera, “sono illegali ed immorali e sono una conseguenza diretta della perdurante occupazione che sta corrompendo la società israeliana. La perpetuazione dell'occupazione sta danneggiando fatalmente la sicurezza dello stato di Israele e la sua forza morale”. La lettera provocò la reazione sdegnata di molti piloti delle forze aeree israeliane che risposero con una contro-missiva, in cui si condannava duramente l'iniziativa dei commilitoni. La pressione fu tale che alcuni dei firmatari originali decise di ritirare il proprio appoggio.

Sempre nel 2003, un gruppo di 13 riservisti di dell'unità di élite Sayeret Matkal, operante nella striscia di Gaza e nel West Bank, scrisse una lettera all'indirizzo dell'allora premier Ariel Sharon: “Non daremo più il nostro contributo all'occupazione dei territori. Non prenderemo più parte alla deprivazione dei diritti umani d base dei palestinesi. Non serviremo più da scudo nella crociata degli insediamenti. Non corromperemo la nostra morale prendendo parte a missioni di oppressione. Non negheremo più le nostre responsabilità come soldati delle Forze di Difesa Israeliane”

Il movimento dei refusenik è sostenuto in Israele da alcune associazioni, che organizzano iniziative e diffondono materiale per informare l'opinione pubblica sulle ragioni di chi rifiuta le armi. Tra queste il Refuser Solidarity Network, una rete operativa che dal 2002 offre supporto al movimento e a tutte quelle realtà pacifiste che si oppongono all'occupazione e alla leva obbligatoria. La sua missione consiste nel “costruire supporto, aumentare la visibilità ed educare il pubblico sul movimento dei rifiutanti, con l'obiettivo di lavorare con loro per porre fine all'occupazione dei territori palestinesi”. Il gruppo fornisce anche aiuto finanziario ai refusenik che devono sostenere le spese dei procedimenti legali.

Un'altra realtà storica dell'opposizione israeliana all'occupazione è l'ONG Breaking the Silence, che offre uno spazio di libera espressione ai soldati che operano nei territori e ai veterani del conflitto. L'obiettivo dell'organizzazione è, appunto, quello di rompere il muro silenzio che circonda le operazioni dell'IDF e permettere ai soldati di raccontare le loro esperienze dirette delle azioni sul campo. Dal 2004 Breaking the Silence porta avanti il progetto “Soldiers Speak Out”, raccogliendo centinaia di testimonianze di membri dell'esercito, della marina e delle forze di sicurezza che hanno operato nei territori, per “costringere la società israeliana a confrontarsi con la realtà da essa creata e con la verità relativa agli abusi, ai saccheggi e alle distruzioni perpetuate ai danni dei palestinesi”.

La soluzione del conflitto israeliano-palestinese non è mai sembrata così lontana come in questi giorni, mentre il numero delle vittime si avvia ancora una volta a superare la quota delle tre cifre e la diplomazia internazionale offre l'ennesima dimostrazione della sua impotenza. Il seme del cambiamento è forse custodito nell'animo profondo della società israeliana e il movimento dei refusenik tenta, con le sue poche forze, di raccogliere l'acqua per farlo germogliare.

Foto: Wiimedia

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