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Annullamento del matrimonio: dalla Cassazione una scelta di laicità

di Adele Orioli

Ogni tanto, persino in questi giorni e persino dai nostri Tribunali, arriva qualche buona notizia, perlomeno in materia di laicità e di buon senso. Nella fattispecie, la Cassazione a Sezioni Unite Civili (che si esprime fornendo un orientamento definitivo e non contrastabile dalle singole Sezioni) con la sentenza n. 16379/14 depositata il 17 luglio scorso, è intervenuta (pesantemente, sostiene qualcuno) sulla disciplina del matrimonio concordatario. Introdotto dai Patti Lateranensi di mussoliniana memoria e attualmente disciplinato dagli Accordi di Palazzo Madama del 1984 (cosiddetto Nuovo Concordato, L. 121/1985), l’istituto prevede che la celebrazione del sacramento cattolico abbia anche effetti civili, previe pubblicazioni nella casa comunale e con successiva trascrizione nei registri di stato civile.

Fin qui, tutto bene. Il problema sorge quando questo matrimonio finisce. Perché, per la legge italiana, salvo rarissime ipotesi di invalidità originaria, lo scioglimento è ex nunc, cioè dal momento in cui viene dichiarato finito, fatti salvi diritti e doveri (non ultimi quelli di natura economico-patrimoniale) acquisiti durante il rapporto coniugale. Per la dottrina cattolica, al contrario, il matrimonio è un vincolo indissolubile. Ergo, o c’è per sempre o non c’è mai stato. Sarebbe a dire che l’unico modo per poter sciogliere un matrimonio religioso è considerarlo mai avvenuto, considerarlo nullo ex tuncab initioab origine. Mai esistito. Il tutto attraverso un procedimento che prevede due pronunce conformi in prima e seconda istanza, da parte di due differenti Tribunali ecclesiastici (18, in tutta Italia); solo nel caso di divergenza fra i due gradi di giudizio è obbligatorio il ricorso al Tribunale della Rota Romana, volgarmente detto Sacra Rota, nonostante questa dizione compaia sistematicamente nel parlare di “divorzio” cattolico.

Le motivazioni che possono dare luogo a questa “inesistenza”: eterogenee e molteplici. Non solo l’impotenza, maschile o femminile che sia, purché “perpetua” (impotentia coeundi), ma anche l’infertilità (impotentia generandi), se volutamente taciuta all’altra parte che, l’avesse saputo, non si sarebbe sposata. Ma anche l’errore, il dolo, la simulazione. Inoltre, ad esempio, l’“incapacità per difetto di discrezione di giudizio (can. 1095 n. 2 c.i.c.)”, la mancata valutazione cioè delle conseguenze pratiche che un matrimonio comporta (chissà se sono mai entrati in gioco la tavoletta del WC o i bigodini). Senza voler entrare nel merito delle singole possibilità, alcune decisamente capziose ad occhi profani, la parte interessante per l’ordinamento italiano consiste nella “delibazione” (cd. exequatur), quel procedimento di merito cioè, in unico grado presso la Corte di Appello territorialmente competente, che decide se introiettare o meno, e dunque far valere, una sentenza di un ordinamento straniero.

Sulla base dell’analisi di tre aspetti: che il procedimento si sia svolto con regolare contraddittorio (diritto di agire e diritto alla difesa), che vi sia stato il passaggio in giudicato (che si tratti quindi di sentenza definitiva) e che non contenga statuizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, ordine pubblico in testa. Va detto che il procedimento è comune per le sentenze di tutti gli stati esteri; casualmente parrebbe però che le percentuali di accoglimento delle nullità di un matrimonio cattolico siano vertiginosamente più alte rispetto a qualsivoglia altra casistica.

E la vicenda che in questi giorni rimbalza sui media parte proprio da qui: una moglie che invoca la “riserva mentale” (è notorio, sostiene, che sia atea da prima di sposarsi e che pertanto non avesse davvero intenzione di contrarre un vincolo indissolubile), che chiede e ottiene tanto lo scioglimento religioso quanto la delibazione della nullità. Un marito che appella per questioni di legittimità in Cassazione. Il matrimonio, con relativa convivenza, è durato più di dieci anni, con tanto di prole (una figlia): e visto che nelle nostre fonti legislative, nella Costituzione e nelle Carte europee dei diritti in primis, si considera non solo il matrimonio come atto (sacro o meno che sia), ma anche come rapporto, la “mai esistenza” di una convivenza decennale è contraria ai principi fondanti il nostro ordinamento.

In realtà, al marito butta male: la Cassazione infatti ha respinto il ricorso, perché (uno dei punti fermi della sentenza) quella della convivenza, del matrimonio-rapporto a vario titolo considerato dal nostro legislatore, è sì un’eccezione opponibile (vale a dire: un motivo per non riconoscere nulle le nozze anche per il diritto civile), ma solo davanti alla Corte d’Appello in sede di delibazione: ora è troppo tardi. Eppure nel fissare principi interpretativi solidi, in sentenza si va ben oltre il singolo caso dall’esito negativo. La Suprema Corte infatti, pur nel massimo rispetto della competenza esclusiva del Tribunale ecclesiastico, stabilisce un paletto definitivo. La convivenza, considerata come “fattispecie complessa”, non semplice coabitazione, ma come “vivere insieme stabilmente e con continuità nel corso del tempo o per un tempo significativo tale da costituire legami familiari”, comporta la piena accettazione dei vincoli matrimoniali (traduzione: se viviamo insieme tot, non è che poi te ne puoi uscire dicendo che non pensavi che fossimo poi “così tanto” sposati).

E quanto deve durare questo tempo, per essere preso in considerazione e non permettere di considerare mai esistito, per lo Stato italiano, un matrimonio? La Cassazione ha adesso stabilito, “secondo diritto e ragionevolezza” (cfr. art. 12 dispozioni sulla legge in generale) che per similitudine venga preso come riferimento la legge 184 del 1983 sull’adozione dei minori. Consentita a “coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni”. Quindi, per riassumere: se la convivenza è proseguita per almeno tre anni e questa eccezione viene proposta in Corte d’Appello ad esclusiva iniziativa di parte (eccezione in senso stretto, non è ammesso l’accertamento d’ufficio da parte del P.M.), il matrimonio nullo (mai esistito) per il diritto canonico non può essere considerato tale per l’ordinamento italiano. Quindi, si può anzi si deve rifiutare la delibazione.

Nonostante le reazioni scomposte, questa decisione in nessun modo intacca il senso religioso della nullità, del quale il giudice italiano niente vuole e può sapere. In nessun modo condiziona la libertà dei Tribunali Ecclesiastici di dichiarare più o meno inesistente un matrimonio (come quello di Francesco Cossiga, dichiarato nullo dopo 40 anni e due figli). Semplicemente, a fronte di un esame del “nostro” diritto, è sembrato corretto riconoscere una tutela alla parte più debole, non solo economicamente, di un rapporto che oggettivamente, secondo criteri laici e non religiosi, ha avuto i caratteri del matrimonio. Legittima la scissione fra i due ordinamenti, legittimo che un vincolo sia sciolto per il diritto canonico e sia solo interrotto per il diritto civile. Il “civis fidelis”, il cittadino credente, non ha alcun diritto assoluto e automatico a veder riconosciuto il sacro nel civile. Una volta tanto.

 

 

di Adele Orioli

foto: Keoni Cabral

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