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Riflessioni su quel che accade in Palestina e le le premesse di un disastro senza precedenti

Ha ragione Lucio Caracciolo, che ha sottotitolato così un suo pezzo sulla crisi palestinese nell’edizione on line di Limes: “La storia non si ripete mai: lo scontro odierno tra Israele e Hamas è diverso da quelli precedenti, anche perché è cambiato il quadro regionale: il Medio Oriente si sta disintegrando.”

In apparenza, quello che sta accadendo è l’ennesima replica dello spettacolo che vediamo almeno dal 2005: Hamas attacca con i razzi ed Israele replica con brutalità, invadendo Gaza, massacrando la gente con bombardamenti indiscriminati ecc. Questa volta la variante è stata l’innesco: l’assassinio dei tre ragazzi israeliani, disinvoltamente attribuito ad Hamas (quando si sa bene che i colpevoli più probabili sono elementi della tribù dei Qawasameh, che da tempo compie attentati per screditare di Hamas e scalzarla), cui ha fatto seguito l’altrettanto orribile linciaggio del ragazzino palestinese, ucciso per “rappresaglia”. Siamo alla bestialità pura, ma stigmatizzare serve a poco, occorre capire.

E la prima cosa da capire è che questa volta è molto più diversa e pericolosa delle precedenti. Soprattutto per Israele che è quello che ha più da perdere.

Israele è ormai prigioniero della sua stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore. Sin dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle più micidiali macchine da guerra del Mondo che ha vinto quattro guerre di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo accerchiavano. Ma dal 1973 quella stessa macchina da guerra è diventata del tutto controproducente.

Dopo la guerra del Kippur non si è più formata alcuna coalizione araba, che minacciasse credibilmente l’esistenza dello “stato degli ebrei” ed il confronto si è spostato sui piani della rivolta popolare, della guerra irregolare e della diplomazia, tutte cose per le quali un potente esercito serve a ben poco. Israele, invece, è rimasto psicologicamente prigioniero del suo passato, ed ha costantemente risposto alle sfide della guerra irregolare mettendola sul piano dello scontro campale. Ma se hai davanti guerrieri irregolari, carri armati ed aerei non sono affatto l’arma più indicata ad affrontarli. L’idea perversa è quella di battere i guerriglieri prendendo in ostaggio i civili: bombardiamo gli obiettivi civili e la popolazione si rivolterà contro i “terroristi” che la mettono in pericolo.

Mi pesa scriverlo, ma è una logica da Marzabotto ed è rivoltante vedere i figli ed i nipoti delle vittime di Auschwitz adottare la logica dei loro persecutori. Ed avere gli stessi risultati di chi li ha preceduti, perché, alla fine, la popolazione riconosce il proprio nemico nell’esercito aggressore.

Questo schema si è ripetuto troppe volte, scrivendo pagine ignobili come il massacro di Sabra e Chatila, al quale, però, il popolo di Israele seppe reagire con una manifestazione di massa (300.000 persone in un paese di 6 milioni di abitanti) contro il proprio esercito. Un gesto di alta civiltà di cui pochi popoli sono stati capaci. Ma di quello spirito è restato ben poco e, dopo lo stillicidio degli attentati suicidi, Israele si è appiattito sul più livido e cieco odio verso il suo antagonista.

La destra di Netanyauh è il sonno della ragione di Israele che ha imboccato un tunnel suicida. Dopo la vittoria del 1973 e, soprattutto, con i negoziati di Camp David, la presenza di Israele nello scenario mediorientale è stata “digerita”, come dimostra il fatto che di coalizioni arabe anti-israeliane non ce ne sono state più. Da quel momento Israele ha avuto la possibilità di chiudere la partita concedendo ai palestinesi un generoso risarcimento (visto che, se è vero che Israele ha alle spalle la Shoah, i palestinesi hanno alle spalle la cacciata del 1948) che avrebbe chiuso la questione: terra in cambio di sicurezza, uno slogan sempre enunciato ma sempre tradito dai comportamenti. E di fonte alla spirale infinita di violenze che ne è seguita, Israele ha costantemente calato la carta della sopraffazione militare, un rimedio, oltre che odioso sul piano morale, illusorio sul piano del realismo politico.

Israele, forte della sicurezza offertagli dalle proprie forze armate, crede (si illude) che ci sia una soluzione militare al conflitto. Questa soluzione non esiste: la guerriglia continuerà endemica, anche perché la soluzione territoriale immaginata (la miriade di bantustan circondati dal muro, con l’appendice di Gaza) è invivibile per qualsiasi popolazione ed i primi a non sopportarla, a parti invertite, sarebbero proprio gli israeliani. L’unica soluzione possibile potrebbe essere semplicemente il genocidio o la deportazione in massa del popolo palestinese: voglio augurarmi che un simile orrore non sia preso in considerazione da nessuno, ma, nel caso qualcuno ci pensasse, bisogna che si ricordi che la comunità internazionale non lo permetterebbe mai.

Ora siamo all’ennesima replica dello scenario militarista, ma questa volta è diverso dal 2006 e dal 2008: in primo luogo tutto il mondo arabo è squassato da una rivolta che non ha raggiunto (almeno per ora) i risultati sperati, ma che, comunque, ha polverizzato regimi politici e stati. Libia e Sudan sono quasi dei failed states, in Siria c’è una guerra infinita, in Irak la guerra civile continua, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato, in Egitto sono tornati al potere i militari ma non si capisce ancora per quanto, l’Arabia Saudita va verso una difficilissima successione. Ma, soprattutto, in Irak e Siria si è stesa l’ombra minacciosa del Califfato. Non credo che realmente ci sia la possibilità di giungere al “grande stato dei credenti”, l’umma che riunisce in un solo stato gli islamici dal Marocco alla Bosnia all’Indonesia. Tanto per dire una sola ragione, già mettere insieme sunniti e sciiti sembra una operazione fuori della realtà. Però non va sottovalutato il potere mobilitante della suggestione del califfato. Se la cosa prende piede, iniziando ad apparire credibile alle masse islamiche (e ci vuol poco: basta semplicemente che duri un po’ nel tempo) va messa nel conto un’ondata di fondamentalismo da far impallidire tutte quelle precedenti messe insieme. Pensiamo solo ai Fratelli Musulmani che hanno dimostrato di avere un forte seguito reale soprattutto nelle campagne e che ora sono in clandestinità, ma pronti ad insorgere ancora.

Israele, con la sua politica dei due forni ha logorato sia Fatha che Hamas che hanno dato vita ad un governo di unità nazionale che è una patetica unione di debolezze. L’offensiva di questi giorni sta ponendo le premesse per spianare la strada all’influenza del Califfato: il primo sintomo di quell’ondata fondamentalista di cui dicevamo. E questa volta non ci sarebbero molti interlocutori statali con cui intendersi.

Questa volta potrebbe porre le premesse di un disastro senza precedenti. Soprattutto per Israele.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Persio Flacco (---.---.---.49) 17 luglio 2014 22:40

    Temo si tratti di qualcosa di molto peggiore di una costrizione psicologica che affliggerebbe la leadership sionista.

    Si consideri con attenzione il concetto espresso nel 2008 dal premier israeliano Netanyahu e accolto con una ovazione dal Congresso degli Stati Uniti:

    “Il popolo ebraico non è un occupante straniero. Noi non siamo gli inglesi in India, o i belgi in Congo. Questa è la terra dei nostri padri: nessuna distorsione della storia potrà mai smentire il legame di quattromila anni tra il popolo ebraico e la terra ebraica”.

    Non ci sono fraintendimenti possibili: Netanyahu afferma il diritto non transitorio e indiscutibile del popolo ebraico sulla terra di Israele. Che questo diritto si eserciti sulla terra i cui confini sono definiti dalle fonti storiche o su quelli descritti dalle sacre scritture non cambia né i termini né il significato dell’affermazione. Tra parentesi: l’analogia con il concetto nazista del Blut und Boden è impressionante.

    Ma si potrebbe pensare che questo concetto sia un’acquisizione recente, o che sia specifico della parte politica di Netanyahu: la destra israeliana "laica", alleata di governo della destra "religiosa" e del movimento dei coloni, non fosse per un fatto che smentisce questa ipotesi. Il fatto è che l’espansione coloniale ebraica nei Territori Occupati è preseguita inarrestabile per decenni, anche sotto i governi israeliani di centrosinistra. Chi ha provato ad interrompere la colonizzazione non ha avuto fortuna: Rabin è stato ucciso; Sharon ha avuto un ictus; Olmert è stato messo fuori gioco da uno scandalo. Chi ha promosso e sostenuto la colonizzazione: un processo le cui finalità contraddicono radicalmente la prospettiva della soluzione a due stati per ovvi motivi, era guidato dallo stesso concetto espresso da Netanyahu ed ha avuto per quasi mezzo secolo la forza e la costanza per imporla. Netanyahu non ha fatto altro che esprimerlo esplicitamente, come del resto fanno sempre più spesso gli esponenti della sua area politica.

    La via intrapresa da Israele sotto l’impulso della dirigenza sionista non è dunque un errore di prospettiva o frutto una costrizione psicologica: è un percorso conforme ad una ideologia dai caratteri ben riconoscibili, una ideologia che ha una meta definita da un assoluto, che assegna alla forza un ruolo primario, ultranazionalista, che una serie di ostacoli da superare o da abbattere e una serie di risultati da cogliere.

    Ora, se questo è vero, e non sembra vi siano elementi che contraddicano la verità di quanto scritto, risulta più chiaro il senso delle scelte fatte dal governo israeliano in questi anni e in questi giorni, e prende consistenza una ipotesi che invece riguarda il futuro.

    Nell’articolo viene giustamente stigmatizzato come pericoloso e autolesionista per Israele il corso degli eventi impresso da Netanyahu e dai suoi. Ma a sostenerlo è evidentemente una persona che non condivide la stessa visione e la stessa prospettiva di Netanyahu.
    Se la condividesse penserebbe probabilmente che è necessario fare di tutto per evitare di essere costretti al tavolo della pace, perché la pace significherebbe alienare al popolo ebraico la sovranità su Giudea e Samaria (la West Bank), e questo è impossibile. Dunque occorre rimediare al pericolo rappresentato dalla recente riunificazione di Fatah e Hamas, occorre colpire duramente Gaza per mettere Abu Mazen nella condizione di difenderla. Ma poiché nominalmente il colpi sono contro Hamas, se Abu Mazen si opponesse ai colpi risulterebbe schierato a favore dalla terrorista Hamas e dei suoi lanciatori di missili, compromettendo il duro lavoro fatto in questi anni per accreditarsi come leader moderato e affidabile. Ecco perché è stato colto il pretesto dell’assassinio dei tre ragazzi ebrei per scatenare la repressione contro la Cisgiordania: per provocare la reazione di Hamas da Gaza e giustificare l’attacco alla Striscia.

    Ma anche il contesto generale della disgregazione del Medio Oriente appare sotto una luce diversa a chi è guidato dall’ideologia del Blut und Boden e ha l’obiettivo di riportare il popolo ebraico sulla terra che gli spetta di diritto. La disgregazione della Siria e dell’Iraq non viene vista come un pericolo bensì come una opportunità per riportare altre parti della Grande Israele sotto la sovranità ebraica.
    La terra che spetta di diritto agli ebrei, secondo l’idea di Netanyahu e dei suoi affini, comprende infatti anche parti della Siria, dell’Iraq, del Libano. Se queste aree cadessero in una condizione di anarchia o nelle mani di integralisti islamici diventerebbero disponibili per Israele, che avrebbe buon agio a difendersi dalla minaccia vera o presunta occupandole. E l’indolenza statunitense ed europea nei confronti dell’avanzata dell’ISIS in Iraq: una organizzazione che sarebbe ancora possibile fermare con relativa facilità, è in questa prospettiva un vantaggio.

    Questo spiegherebbe il motivo per cui la lobby sionista di Washington ha esercitato forti pressioni per un attacco statunitense contro il regime di Bashar al-Assad, che resiste da anni ai tentativi di rovesciarlo per via indiretta. Pressioni finora vanificate dall’appoggio della Russia al regime siriano, e accolte dal governo israeliano con dispetto. Ciò ha fatto della Russia un obiettivo da abbattere o, quantomeno, da indebolire sul piano internazionale.

    Come si vede, tutto acquista un senso più definito e razionale se si considera nella giusta luce l’ideologia che guida il gruppo dirigente sionista.

  • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.152) 18 luglio 2014 17:02
    Fabio Della Pergola

    logica da Marzabotto? ma siamo sicuri che 2000 vittime tra morti e feriti su altrettante incursioni aeree (che equivale a una o due vittime per ogni bomba o missile) siano equiparabili anche solo lontanamente alle stragi indiscriminate ?

    E "questa volta non ci sarebbero molti interlocutori statali con cui intendersi"...perché finora ci sono stati o c’è stato solo un balletto di mimi in cui quando uno diceva sì subito spuntava un altro a dire no, per decenni ?

    "Questa volta potrebbe porre le premesse di un disastro senza precedenti".... su questo si potrebbe essere d’accordo. Israele è in una situazione difficilissima; lo è sempre stato ma ora di più, sia per il collasso fondamentalista del mediooriente, sia per l’evoluzione delle tecnologie in mano a chiunque. M ail pericolo non sta lì, almeno non per ora. Il pericolo sta in Europa dove masse di islamici hanno già da tempo iniziato la caccia all’ebreo: Tolosa, Istanbul, Bruxelles e le manifestazioni sono chiaramente antiebraiche, non più antiisraeliane. Ma gli islamici immigrati sono già mal sopportati. Se il conflitto israelo-palestinese viene importato in Europa non vorrei essere un arabo.

    Ma a tutto questo c’è rimedio ? Davvero si crede che se Israele "concedesse" uno stato nella West Bank ai palestinesi tutto questo processo potrebbe fermarsi ?
    Ahinoi e ahiloro, penso di no.
    FDP

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