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Il governo ha definito il valore di una retta simbolica: 7 mila euro!

Come nel più classico degli horror, quando si parla di escogitare il modo per privilegiare la confessione dominante i mostri saltano fuori da tutte le parti con cadenza regolare. Soprattutto quando ci sono di mezzo i soldi. I vostri e i suoi. Con i vostri che diventano suoi.

Il difficile rapporto tra tasse immobiliari e imprese religiose

In principio era l’Ici, tassa a cui erano assoggettati tutti gli immobili italiani ad eccezione di quelli adibiti ad uso di culto, intendendo con ciò qualunque immobile destinato ad “attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale”. Praticamente ovunque vi fossero un inginocchiatoio e una statua della Madonna, l’esenzione scattava automaticamente. Principio inaccettabile per l’Unione Europea che infatti, a seguito di una denuncia dei Radicali, avviò un’inchiesta contro l’Italia.

A metterci una pezza ci provò il governo Monti, che nel passaggio dall’Ici all’attuale Imu dichiarò che non ci sarebbero più state esenzioni per attività commerciali. Tuttavia, tra i malumori clericali e una sonora bocciatura da parte del Consiglio di Stato, segno che in quell’occasione il mostro era pure più brutto del solito, il governo rimaneggiò il decreto introducendo il principio della retta simbolica, di derivazione europea: laddove la scuola privata esiga dagli utenti la corresponsione di una retta di importosimbolico”, svolga attivitàparitaria” e non operi discriminazioni, si assume che l’attività non sia di tipo commerciale e si considerano soddisfatti i requisiti per essere esentati dall’Imu.

Le premesse per l’ennesimo favoritismo verso la scuola privata, in larghissima parte cattolica, c’erano tutte, e anche verso la sanità privata (pure questa in maggioranza cattolica) a cui veniva richiesto per l’esenzione semplicemente di essere convenzionata con il SSN. Cambia il governo, a Monti succede Letta, all’Imu si affianca una non meglio definita “service tax”, ma non cambia affatto l’atteggiamento. Anzi, si fa ancora più clericale, e infatti a un certo punto Letta annunciò che il nuovo balzello, in seguito denominato Tasi, non sarebbe stato imposto agli enti no profit “pesantemente penalizzati dall’Imu”.

La trovata del Ministero dell’Economia e delle Finanze

Ed eccoci ai giorni nostri. Il 26 giugno scorso il Mef ha emanato il decreto con cui viene introdotto il nuovo modello da utilizzare per la dichiarazione Imu/Tasi e, contestualmente, vengono fissati i parametri per poter beneficiare dell’esenzione totale. Intanto si ribadisce che possono beneficiarne solo le scuole che svolgono attività paritaria rispetto all’istruzione pubblica (ma non dicevano che l’istruzione pubblica comprende anche le paritarie?) e che garantiscono “la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni”. Detta in questo modo può benissimo essere interpretata nel senso che sono libere di discriminare in fasi successive, ad esempio obbligando tutti a seguire le lezioni di una determinata religione oppure selezionando le classi per genere, cose affatto inusuali nelle scuole confessionali come insegna l’esperienza delle faith schools britanniche.

La parte più gustosa però, quella col mostro tosto che di solito mette alle corde i protagonisti, arriva quando si fissa quel “benedetto” importo simbolico di cui parlava Monti due anni fa. Ebbene, la ricetta è la seguente: si prende uno studio Ocse che determina la spesa per studente nella scuola statale, fissata in importi che vanno dai 5.739 euro per le scuole dell’infanzia ai 6.914 delle secondarie di secondo grado, e se ne assumono i valori come CMS (costo medio per studente). Poi si chiede alla scuola paritaria di turno di calcolare la retta media pagata dai suoi studenti, dividendo il totale delle rette per il numero di studenti, e questo lo si chiama CM (corrispettivo medio). Se il CM è inferiore al CMS la scuola è esentata. Geniale, no?

In questo modo, come fa giustamente notare Valentina Conte su Repubblica, si esentano praticamente tutte le scuole (in realtà lei ci mette un “quasi”), perché le scuole che sforano questi importi sono veramente poche, e di queste poche è verosimile che la maggior parte (salvo forse solo quelle che si vogliono elitarie) rimoduleranno le rette in modo da abbassare la media (il CMS), acquisendo così il diritto all’esenzione. Alla fine le scuole private si ritroveranno con i contributi pubblici erogati a vari livelli, principalmente comunale, con le rette versate dagli studenti e con l’esenzione fiscale, mentre la scuola statale continuerà ad avere sempre meno fondi, nonostante l’offerta sia, almeno per il momento, di livello superiore a quello della scuola privata (anche questo dato Ocse). A dirlo senza mezzi termini è la ministra Stefania Giannini (Sc) in un’intervista, rilasciata alla rivista ciellina Tempi, in cui afferma appunto che allo Stato convengono “parità e costo standard”.

Il sostegno dell’altro ministero: quello dell’Istruzione

E torna, la Giannini, anche sul principio secondo cui se sparissero le paritarie i costi per lo Stato aumenterebbero di sei miliardi, calcolo che già noi a suo tempo avevamo contestato e che adesso viene confutato perfino dalla Fondazione Agnelli, che certo non può essere considerata un’istituzione anticlericale. Il concetto è semplice: il costo totale dell’istruzione statale non può essere calcolato operando una banale proporzione tra numero di studenti e importo totale, risulta un calcolo già falsato in partenza. Semmai è vero il contrario, che il costo per studente si alza se scende il numero di studenti, e questo porta a una semplice riflessione: cosa accadrebbe al famoso CMS di cui sopra se una parte consistente di studenti migrasse verso le paritarie? La risposta è semplice e raggelante allo stesso tempo: il quoziente si abbasserebbe, e di conseguenza si alzerebbe il tetto massimo entro cui le rette delle scuole private garantiscono il diritto all’esenzione. Alla fine lo Stato pagherebbe di più e i cittadini sarebbero costretti a scegliere tra una scuola statale per poveri, sempre più con l’acqua alla gola, e una scuola privata caratterizzata da costi esorbitanti e profitti stellari.

Ma per la ministra tutto questo evidentemente non conta, le posizioni contrarie vanno classificate come meri “pregiudizi culturali”, quelle favorevoli evidentemente no. E cita, a tal proposito, il referendum bolognese che lo scorso anno vide contrapposti favorevoli e contrari al finanziamento comunale per le scuole paritarie, dicendosi stupita per il fatto che anche per gente di cultura quando si parla di pubblico lo si intende come sinonimo di statale, e definendo addirittura fuorvianti le discussioni del tempo. Eppure ad essere fuorviato fu proprio l’esito di quella consultazione. Forse la ministra non lo ricorda più, ma i cittadini bolognesi votarono contro i finanziamenti alle paritarie, tuttavia il sindaco Merola se ne infischiò. Se non è “pregiudizio culturale” questo.

In linea con la posizione della Giannini anche il sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi (ciellino Ncd), che dalle colonne del quotidiano dei vescovi Avvenire parla di disparità sanata. In realtà è con questo sistema che iniziano le vere disparità, che viene effettivamente meno quella libertà d’insegnamento a cui si appella Toccafondi. Non può esserci vera libertà se il sistema viene diviso in scuole statali povere e scuole private, in larga parte confessionali, ricche. Toccafondi si spinge ad auspicare “una parità scolastica chiara e reale, come previsto nella Costituzione”. E qui viene il dubbio che la Costituzione che ha tra le mani non sia quella italiana, perché quest’ultima non dice affatto che le scuole paritarie debbano essere esentate dalle imposte. Anzi, dice che le scuole private non devono essere onerose per lo Stato, quindi semmai il contrario.

Per cliniche e case di cura va anche meglio

Se alle scuole viene richiesto di mantenersi al di sotto di un certo tetto, seppur esorbitante, nel fissare le rette da far pagare agli studenti, per la sanità privata non c’è praticamente nessun limite. Sebbene la Commissione Europea abbia stabilito, con l’emanazione del regolamento 200 del 2012 (richiamato perfino nelle istruzioni per la compilazione della dichiarazione Imu/Tasi), il requisito che la struttura eroghi prestazioni a titolo gratuito o dietro versamento di una semplice partecipazione alla spesa, alla fine il governo richiede solo che l’ospedale sia convenzionato con lo Stato. Per la Commissione, perché il costo di una prestazione possa essere considerato “partecipazione alla spesa” occorre che questo sia al massimo la metà del prezzo medio praticato dalle altre strutture per la stessa prestazione, e nello stesso territorio, ma il governo ritiene evidentemente che qualunque clinica privata non possa mai eccedere quel limite e di conseguenza non lo ha posto come requisito.

Per fortuna non tutti gli esponenti politici usano toni trionfalistici. L’ex vice ministro Stefano Fassina (Pd) ha detto chiaramente a Repubblica: “Francamente non capisco”. Non capisce, e certamente non è il solo, come si possano tagliare fondi all’istruzione e contemporaneamente esentare la scuola privata dalle imposte. E osserva, Fassina, che per raggiungere un obbiettivo politico, e aggiungiamo noi clericale, è stato utilizzato uno strumento tecnico qual è il decreto ministeriale. Ancora più netto il giudizio di Giovanni Paglia, capogruppo di Sel e membro della Commissione finanze, che ha definito il decreto una vergogna aggiungendo: “almeno abbiamo capito cosa si intende per no profit quando c’è di mezzo il Vaticano”. Il problema a questo punto è farlo capire agli altri, sordi della peggior specie: quelli che non vogliono sentire.

 

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