• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Perché l’ISIS è così ricco

Perché l’ISIS è così ricco

Armi o contributi umanitari, beneficenza o finanziamenti militari? Non è facile seguire i flussi di denaro diretti verso la Siria e le altre zone di conflitto mediorientali e prevedere il loro reale utilizzo.

Se la guerra al terrorismo condotta dagli Stati Uniti durante il primo decennio del secolo era riuscita a compromettere la salute economica della galassia jihadista collegata ad Al Qaeda, i recenti sviluppi sul terreno ed il successo apparentemente inarrestabile dell’ISIS e degli altri gruppi sunniti impegnati nella creazione del califfato del terzo millennio hanno sparigliato le carte in tavola e messo in crisi alcune sicurezze. I gruppi jihadisti che hanno preso il controllo di enormi porzioni di territorio a cavallo tra Iraq e Siria sono più ricchi che mai, spiegano Juan C. Zarate e Thomas M. Sanderson sulle pagine del NYT, e il denaro che affluisce nelle loro casse segue percorsi estremamente articolati.

I soldi per le armi e il proselitismo, si nascondono, a volte, dietro le sembianze rassicuranti degli aiuti umanitari. Nei paesi del Golfo si organizzano aste ed eventi benefici allo scopo di raccogliere fondi per i rifugiati siriani o per alleviare le sofferenze dei bambini coinvolti nel conflitto. Il marketing umanitario è solo un pravento però. Chi partecipa a questi eventi ed elargisce finanziamenti sa bene che i fondi saranno destinati a gruppi combattenti e non ad organizzazioni no profit e che il loro utilizzo sarà deciso unicamente in funzione delle necessità espresse dal campo di battaglia e dalle strategie di propaganda. Alcuni rivoli del torrente dei finanziamenti si tramuteranno in cibo e medicine per i civili, ma la maggior parte dei fondi sarà utilizzata a scopi militari. 

I guerriglieri dell’ISIS e degli altri gruppi fondamentalisti non fanno affidamento solamente sui canali di finanziamento privati. Le vittorie sul campo producono risorse economiche immediatamente disponibili. Il caso più eclatante, in tal senso, si è verificato in occasione della presa della città di Mosul, nel nord dell’Iraq, da parte dello Stato Islamico. Il 10 di giugno i combattenti hanno svaligiato la principale banca della città mettendosi in tasca oltre 400 milioni di dollari in contanti e diventando, di fatto, il movimento integralista più ricco tra tutti quelli attualmente all’opera. Nessuno, sottolineano Zarate e Sanderson, ha il potere di impedire all’ISIS di spendere quella montagna di soldi come meglio crede.

Il finanziamento dei gruppi armati sunniti ha assunto ormai una dimensione duale o glocale. L’ISIS ha saputo accumulare ricchezza direttamente sul posto, svaligiando banche e prendendo il controllo delle forniture di petrolio; al contempo, i suoi successi militari hanno rinvigorito il network globale dei finanziatori privati che nell’era delle guerre di Bush Jr si era gradualmente sfilacciato.

Per conservare il proprio appeal presso i donatori del Golfo e gli altri centri di finanziamento sparsi nei cinque continenti, i movimenti jihadisti hanno compreso la necessità di rendere duplice anche il contenuto della propria azione. Prendendo a modello realtà storiche e radicate territorialmente come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano, l’ISIS e i suoi fratelli hanno cominciato ad intercalare le azioni militari con iniziative di tipo umanitario in favore delle popolazioni e delle vittime civili del conflitto. Un modello di governance e di welfare che facilita i rapporti dei miliziani con le popolazioni assoggettate al loro controllo e gli consente di usufruire dei flussi di donazioni elargite per “motivi umanitari”.

Questo cambiamento era del resto già in corso nel Nord Africa, dove il gruppo Al Qaeda per il Maghreb Islamico si finanzia da tempo con i proventi dei rapimenti e del contrabbando. Come le organizzazioni mafiose di casa nostra, i gruppi terroristici hanno compreso che la chiave del successo risiede nella diversificazione delle attività e degli affari e non solamente nei risultati delle campagne militari. In Afghanistan e in Pakistan, i Taliban hanno adottato la stessa strategia, operando rapimenti a scopo di estorsione e assumendo il controllo del contrabbando e dei traffici di eroina. Il movimento Shabab in Somalia è andato ancora oltre, organizzando un sistema di riciclaggio di denaro basato sull’import-export di carbone e zucchero e imponendo un sistema di tassazione sui territori sotto il proprio controllo.

Di fatto in Iraq oggi l’ISIS sta perfezionando un modello già sperimentato con successo altrove, riuscendo a renderlo efficiente su larga scala. Lo Stato Islamico sta ormai combattendo una guerra di tipo economico, attraverso il controllo delle risorse alimentari ed energetiche. I proventi di questa guerra vengono reinvestiti sul piano militare, ma non solo a livello locale. Da semplice destinatario delle iniziative di fund raising “Jihad-friendly”, l’ISIS è divenuto egli stesso un ente finanziatore e dalle sue casse partono i flussi di rifornimento che tengono in vita i movimenti integralisti nelle altre zone del mondo.

Come già riportato, l’ISIS si distingue anche per la capacità di utilizzo dei social network e, in tale ambito, le iniziative di auto-finanziamento non fanno eccezione. Twitter viene usato per promuovere campagne di investimenti o di finanziamento e per aggiornare i donatori sullo stato di avanzamento delle azioni in corso. Al-Naba, La Notizia, è invece una vera e propria pubblicazione on-line attraverso la quale il gruppo rende noti i progressi di specifici progetti.

Come affrontare l’ISIS ed indebolirla militarmente ed economicamente? Zarate e Sanderson individuano la necessità di agire sul duplice canale e, in primo luogo, ritengono inevitabile un’azione di tipo militare, non necessariamente condotta dagli Stati Uniti, per sottrarre all’ISIS i territori che attualmente controlla. Parallelamente, occorre mettere in campo una strategia complessa ed articolata per prosciugare i canali di approvvigionamento esterni. Per riuscire nello scopo si dovrà intervenire contro i network di donatori internazionali, stringere accordi con i paesi coinvolti per rafforzare le misure legali di contrasto e rendere più severi i controlli di frontiera per interrompere i flussi di denaro contante, esercitare pressione costante su paesi come il Kuwait, il Qatar o la Turchia perché esprimano una reale volontà politica di isolamento nei confronti di quei settori che in modo opaco finanziano il terrorismo, nascondendosi dietro le sigle di sedicenti organizzazioni umanitarie.

Se non si saprà agire con intelligenza ed efficacia sui molti piani inclinati che compongono il panorama del nuovo jihadismo transnazionale, sarà difficile contrastarne le mire espansionistiche. Il rischio, per l'Occidente, è una nuova guerra al terrorismo contro un nemico forte e ben organizzato.

 

Foto: Wikiimedia

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.115) 1 luglio 2014 09:59

    L’articolo "dimentica" che le armi dell’ISIS le ha fabbricate il sedicente Occidente, in cui alcuni patrioti si sono molto arricchiti con la vendita di sistemi d’arma a paesi che definire politicamente instabili è un eufemismo.
    Vivremo in pace quando smetteremo di essere i primi ad armare il mondo.
    Tutto il resto sono fesserie.
    Piaccia o meno ai "pistoleri" USA.
    Regards

  • Di Persio Flacco (---.---.---.113) 1 luglio 2014 22:50

    Agire militarmente e finanziariamente potrà, si spera, fermare l’ISIS nella sua avanzata per impadronirsi del medioriente, ma non risolverà il problema. Chi pensa questo non conosce abbastanza il mondo islamico, la sua struttura policentrica, liquida, ma capace di addensarsi in strutture combattenti in ogni suo punto e in ogni momento sotto l’azione di un catalizzatore.
    Il catalizzatore è il conflitto tra Israele e palestinesi.
    Quello che sta avvenendo, e quello che è avvenuto prima, è la conseguenza dell’odio diffuso nel mondo islamico a causa della umiliazione del popolo palestinese: una parte della Umma, della comunità islamica.
    E’ per questo, per non essere travolti dagli effetti di questo odio, che i regnanti sauditi si fecero promotori nel 2002 una iniziativa di pace che offriva il riconoscimento di Israele da parte dei regimi arabi in cambio della pace tra Israele e palestinesi.
    Iniziativa del tutto ignorata da Israele e dagli USA.
    Può darsi che l’ISIS verrà fermato, come è stata parzialmente fermata al Qaeda, ma se anche fosse nasceranno altre al Qaeda, altri ISIS, se agli integralisti non verrà tolto di mano il catalizzatore per formarne altri.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità