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Samir Kassir, un martire sprecato

A nove anni dalla morte di Samir Kassir, Michael Young riflette sulle aspirazioni dell’intellettuale libanese per il mondo arabo: se Kassir fosse ancora vivo – si chiede – come avrebbe commentato la tragedia siriana?

Samir Kassir off the wall - Mazen Kerbaj

(di Michael Young, per Now. Traduzione dall’inglese di Prisca Destro).

 

Ci sono poche parole più detestabili di “martire” e l’assassinio di Samir Kassir l’ha dimostrato in modo lampante. Abbiamo commemorato (Kassir è morto il 2 giugno 2005 a causa dell'esplosione di un'autobomba a Beirut, ndr) il nono anniversario del suo omicidio. La sua condizione di martire ci ha insegnato qualcosa?

Forse ingenuamente alcuni – me compreso – hanno pensato che la morte di Samir non sarebbe rimasta impunita. Quasi un decennio dopo, quella speranza è svanita, e l’unico sentimento rimasto è che persino la più eroica delle morti, alla fine, è fondamentalmente priva di senso. Suona pure i tamburi e da’ fiato alle trombe, ma non ne verrà nulla, di certo non in Libano.

Già poco dopo l’uccisione di Samir, i calcoli da tutte le parti sono iniziati a cambiare. Gli aunisti, con i quali Samir era da lungo tempo impegnato in un dialogo, hanno abbandonato la sua memoria nel momento in cui si sono alleati con Hezbollah e la Siria. Nel 2009 anche gli esponenti storici della coalizione del 14 marzo sono stati costretti a normalizzare i loro rapporti con Bashar al Asad, seppur con riluttanza, dandogli il benvenuto a Beirut. Walid Jumblatt, vedendo i cambiamenti in atto tutt’intorno a lui, ha deciso di riconciliarsi con Asad, invertendo la rotta solo quando è iniziata la rivolta in Siria.

Tutto questo era normale in un Paese dove la classe politica non vuole o non sa agire autonomamente. In queste sabbie mobili che possibilità aveva il destino di Samir Kassir di lasciare un segno duraturo sulla giustizia in Libano e di cambiare le modalità di funzionamento politico del Paese? Nessuna.

Kassir aveva capito bene il legame che intercorre tra l’insoddisfazione e la solidarietà degli arabi. Solo sei anni dopo la sua morte se ne sarebbe avuta la dimostrazione nel susseguirsi di rivolte arabe che si sono alimentate a vicenda. Queste erano dinamiche che Kassir avrebbe capito bene, dal momento che tendeva a considerare il mondo arabo come un tutto integrato. Secondo la sua visione, c’era un legame strettissimo tra il desiderio libanese di libertà dalla Siria e l’aspirazione del popolo siriano alla libertà in patria. E il desiderio di uno stato da parte dei palestinesi, nella sua mente, non era diverso dalla ricerca dell’autodeterminazione politica degli iracheni dopo il 2003. Kassir non era un difensore dell’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush, ma non era disposto – a differenza di tanti suoi contemporanei – a negare i vantaggi di cui gli iracheni hanno goduto per il fatto di essere stati finalmente liberati da un regime patologico e omicida.

Se Kassir fosse ancora vivo, cosa ci avrebbe detto sulla situazione siriana? In Siria sono state uccise circa 160mila persone, eppure il maggiore responsabile di questa mattanza è ancora al potere e ha appena organizzato la propria rielezione fraudolenta. Di sicuro Kassir sarebbe stato uno dei commentatori più mordaci di questo oltraggio e un difensore esplicito dell’opposizione, ma anche uno dei suoi critici più lucidi.

Kassir non avrebbe avuto pietà nel condannare la patetica risposta occidentale in Siria. Pur avendo sempre messo in guardia dai pericoli dell’intervento occidentale in Medio Oriente, Kassir ne coglieva anche il potenziale liberatore. Ecco perché mi ha detto in un’intervista rilasciata quasi un anno esatto prima del suo omicidio: “L’Occidente deve accettare l’idea che l’importanza strategica del Medio Oriente non deve giustificare la negazione del diritto all’autodeterminazione della sua gente, e con questo intendo, in particolare, i palestinesi”.

Si può immaginare il disprezzo che avrebbe provato nei confronti dei Paesi occidentali – primi fra tutti gli Stati Uniti – che in Siria hanno agito con un’indifferenza e un’incompetenza quasi surreali. Vent’anni dopo il genocidio in Ruanda, con i funzionari occidentali che esprimono il loro rimorso per non aver agito all’epoca, sta avendo luogo un altro sterminio, i cui orrori si moltiplicano ogni giorno, senza tregua. È così che dev’essere? Permettere che un massacro continui per poi pentirsene dopo vent’anni, quando il senso di colpa non ha più alcuna importanza?

L’ultimo libro di Kassir, Considerations sur le Malheur Arabe, ha ricevuto molti plausi dopo il suo assassinio. Il tema principale è che gli arabi possono concepire un percorso verso una rinascita nazionale mediante una riconsiderazione della loro ricca storia, che può aiutarli a liberarsi dell’“impotenza perenne” [che annullava] “la possibilità di un nuovo risveglio [1]”.

Tanto dell’ottimismo e dell’esuberanza dell’autore si ritrovava nel libro. La sua tragedia è stata che lo sforzo che questo intellettuale unico ha compiuto per provare a vedere, attraverso il miasma regionale, la possibilità di un futuro pieno di sole è stato stroncato dalla realtà del presente violento nel mondo arabo. Quel presente è ancora con noi, più brutale e crudele che mai. E la speranza che l’insensato omicidio di Kassir avrebbe in qualche modo alterato questa situazione si è dimostrata illusoria.

Come il gatto del Cheshire in Alice nel Paese delle meraviglie, tutto quel che resta di Samir è il suo gran sorriso. È un ghigno al tempo stesso spiritoso e provocatorio. La coalizione del 14 marzo – forse comprensibilmente – ha fatto di lui un santo, sebbene Kassir non abbia mai avuto la benché minima intenzione di essere qualcosa di tanto scialbo. Invece era tutto vita ed è proprio questo che ne definiva lo sguardo sul suo Paese e sul Medio Oriente.

Nove anni dopo, il sorriso è ancora lì, ma non sappiamo se si tratta di un’espressione di soddisfazione o di una smorfia di dispiacere per quello in cui è stato trasformato. Tutto quello che possiamo dire è che con il passare degli anni Samir Kassir diventa sempre più rilevante, e la sua assenza sempre più opprimente. I suoi scritti hanno portato ordine nel caos di una regione che divora i suoi figli. Che spreco è stata la sua morte.

(Now, 6 giugno 2014)

[1] L’infelicità arabap. 5. Einaudi 2006. Traduzione di Paola Lagossi.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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