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Un siriano a Tunisi – prima puntata

Tunisi- Dove strada si dice nahj… (Trombetta/2014)

Tunisi- Dove strada si dice nahj… (Trombetta/2014)

(di Lorenzo Trombetta)

Con troppa scioltezza sono arrivato al gabbiotto azzurro del controllo passaporti. “Dov’è il cartoncino bianco?”, mi chiede con gentilezza l’agente della polizia di frontiera tunisina. Il cartoncino bianco! Come ho potuto dimenticarlo.

Paese arabo che vai, cartoncino bianco che trovi. Che poi ne fanno di vari colori, ma la funzione è sempre la stessa: farti perder tempo, inserendo informazioni che sono già scritte sul passaporto o che potrebbero prendere a voce.

Ma soprattutto mostrare che nel loro Paese sicurezza-e-stabilità sono assicurati da controlli capillari su chi entra e chi esce. Cazzate! Lo sappiamo noi e lo sanno loro.

Chissà perché il mio essere a Tunisi mi faceva sentire più rilassato di altri “arrivi” in Paesi arabi. Qui il “regime è caduto”, pensavo mentre l’aereo atterrava. Qui parlano tutti e senza timore di “rivoluzione”. Senza doversi giustificare. Senza dover “contestualizzare”. Senza dover citare tutta la letteratura accademica prodotta in ugro-finnico sul tema “rivoluzione o guerra civile”.

Eppure, parli con gli intellettuali, con i dissidenti, con gli avvocati per i diritti umani, con gli analisti e ti dicono che… “il regime di Ben Ali è in parte ancora lì”: dietro le istituzioni che ora guidano al transizione verso qualcosa che nessuno ancora sa cos’è ma che tutti sanno essere il post-dittatura.

Ecco, se sono in un contesto “post-” posso permettermi di dimenticarmi il cartoncino bianco. Forse hanno già riformato il sistema di sicurezza? Mi illudo e mi sbaglio. E sbatto il viso sul gabbiotto azzurro. Poi esco. Nessuno mi perquisisce i bagagli e arrivo alla fila dei taxi per la città.

Dal mio cappello magico tiro fuori la parola “tabur”, in siriano “fila”. Giuro che non so perché decido stamani di usarla dopo averla messa nella soffitta della mia testa per anni.

L’ultima volta che ho osato pronunciarla ero in fila – appunto! – per fare i biglietti al cinema Dune in un orribile centro commerciale nel quartiere Verdun di Beirut. Ero circondato da libanesi che si credevano emancipati perché indossavano gli occhiali 3D per vedere le ultime acrobazie di Spider Man.

Ero nervoso – allora mi innervosivo ancora in situazioni del genere – perché nessun rispettava la fila nel fare i biglietti. Ma ero io lo straniero. Ero io lo strano. L’alieno, che parlava di “rispetto del turno” quando il sistema locale funzionava e funziona in un altro modo: chi è più furbo, più alto, più grosso… passa prima degli altri.

“Dov’è il tabur?!”, ho chiesto ai tassisti tunisini che si sono affollati attorno a me e alla mia valigia. “Dov’è il tabur?!”, chiesi alla bigliettaia del cinema di Beirut. Allora mi risero in faccia: la bigliettaia e chi aspettava di comprare il biglietto. “Tabur?”, ma da dove viene questo qui, era il fumetto che appariva sopra le loro teste.

A Beirut è un termine percepito come molto “siriano”, dove per “siriano” si intende una classe sociale di inferiori: lavoratori a cottimo che affollano le città libanesi o soldati in ciabatte che fino al 2005 umiliavano i libanesi ai posti di blocco.

Solo col tempo ho imparato che invece di “tabur” a Beirut posso usare l’espressione “biddor” (bi-dawr, “con il turno”), per chiedere il rispetto del turno. Il turno non si rispetta ugualmente. Ma almeno mi considerano un loro “pari”.

I tassisti tunisini rimangono invece perplessi e mi chiedono: “Enta suri?”, sei siriano? Questa volta non ho dubbi. “Sì”. E trovo l’ennesima conferma che i tassisti sono una delle categorie sociali più reazionarie di quelle che si possono trovare nelle città.

La maggior parte dei colleghi giornalisti citano i tassisti nei loro articoli scritti appena giunti in un Paese a loro sconosciuto. Il tassista è il primo indigeno – e a volte l’unico – con cui il reporter, spesso ignaro della lingua locale, riesce a interloquire.

E lo interroga sui massimi sistemi. Il tassista diventa così improvvisamente il maggiore esperto di globalizzazione, di flussi finanziari, di geopolitica, di rapporti tra potenze internazionali. E la sua ricetta sarà quasi sempre la stessa: si stava meglio prima.

Il caro-vita? “La benzina è rincarata… colpa degli scioperi che prima non c’erano”. La mancanza di sicurezza per le strade? “Mia figlia non esce più da sola. Ci sono i barbuti e i ladri che prima erano tenuti a bada”. Chi protesta per un Paese migliore? “Disfattisti. Allontanano i turisti!”.

Il mio tassista mi distoglie dai pensieri e mi chiede cosa ci fa un italiano in Libano da circa dieci anni. Ha ragione a chiederlo. Poi mi chiede della Siria. Ci accordiamo su una frase di circostanza: “La situazione è molto difficile”. Potevo dirlo anche al mio gatto quando aprivo la scatoletta per dargli da mangiare.

“Le rivoluzioni ci hanno rovinato”, afferma scuotendo la testa. Estremismo islamico, mancanza di sicurezza, strade più sporche. Gli chiedo se quando c’era Ben Ali i treni arrivavano in orario. “Sì! Hai ragione!”, esclama. “Come fai a saperlo?”.

Sorrido e chiedo aiuto ad Aldo. Aldo non è solo un amico. Ma è una enciclopedia vivente di dialettologia araba e di molte altre cose legate alle mie passioni.

Aldo risponde sempre agli SMS. Anche di notte o se è a farsi un bagno a Trapani. Lo interrogo su una questione per me cruciale: perché se parlo nel mio strampalato dialetto siro-romanaccio-libanese, qui mi capiscono? E soprattutto, perché anche io li capisco?

La risposta arriva in meno di 45 secondi: “Il siriano va forte con le musalsalat [le soap opera] e poi il tunisino [l'individuo] fa un passo indietro”, dice Aldo riferendosi al fatto che i dialetti del Levante arabo sono percepiti come più nobili rispetto a quelli del Nordafrica. “Rispetto all’algerino e al marocchino [come dialetti] il tunisino è più potabile”.

Ma Aldo va oltre. Sennò non sarebbe Aldo. “Sai che ‘bi-suri’ significa ‘in francese’?”. E mi lascia così. A bocca aperta. Scendo dal taxi. Entro in ascensore e arrivo in camera con uno sguardo perso a pensare cosa c’entra la Francia con la Siria… in Tunisia! Non posso nemmeno andare in bagno. Devo capire.

E invio un altro SMS di soccorso ad Aldo. Che prontamente – e immagino quanto abbia goduto – mi risponde: “Momken [forse, nel suo arabo-traslitterato] nel 1881 quando la Francia ha occupato la Tunisia, Parigi ha portato dei preti dalla Siria come interpreti e mediatori. Questi portavano la camicia e così ‘suriya’ significa ‘camicia’ in tunisino e ‘suri’ è la lingua francese. E tutto ciò che è ‘moderno’”.

Fantastico! E anche se – come dice Aldo – tutto ciò è premesso da un “forse” molto imponente, sento che il mio essere “siriano a Tunisi” ora ha più senso di qualche ora fa.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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