• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Società > Il prezzo dei diritti (aborto e dintorni)

Il prezzo dei diritti (aborto e dintorni)

di Adele Orioli, responsabile iniziative legali UAAR

Tra una Marcia per la vita (con suore e preti inneggianti alla maternità e ricevuti in pompa magna dal buon Bergoglio) e la brillante proposta di legge Binetti-Gigli che propone di dotare di curatore legale l’eventuale nascituro prima ancora dell’eventuale concepimento (sic), nelle cronache si possono leggere anche i risultati concreti della pressoché totale non applicazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza.

Dalla 19enne di Genova lasciata per ore senza cure dall’unico medico-obiettore presente, alla donna che al Pertini di Roma avrebbe affrontato un aborto terapeutico da sola in un bagno per un cambio del turno di medici e infermieri.

E per un singolo caso di cui veniamo a conoscenza, quotidianamente in silenzio se ne verificano centinaia di similari. D’altronde nel solo Lazio la percentuale dei medici obiettori è dell'82%, in 10 ospedali pubblici su 31 non si effettuano Interruzioni Volontarie di Gravidanza e in tre province su cinque non si eseguono gli aborti terapeutici.

Peccato che a ben guardare, dopo quasi quarant’anni dall’introduzione della normativa, sia la stessa obiezione di coscienza a non avere più alcun senso di esistere. Giusto, sacrosanto anzi, tutelare i lavoratori in servizio allora; assurdo permettere oggi che una legge dello stato venga deliberatamente disapplicata. Nella sanità pubblica si effettuano aborti; ergo, chi non vuole può scegliere il settore privato o un’altra branca professionale. Non credo l’esercito italiano fornirebbe uno stipendio a chi si dichiarasse disponibile ad arruolarsi ma senza toccare armi e solo per lavori d’ufficio. È invece tranquillamente possibile non rispettare la legislazione nazionale, lustri dopo l’entrata in vigore della 194, per medici e personale paramedico che spesso, troppo spesso, obiettori lo sono solo nella e per la carriera statale ma non in quella del settore privato.

L’aborto come parte del diritto all’autodeterminazione sessuale e riproduttiva è e resta un diritto fondamentale, inalienabile, imprescrittibile, non consumabile di ognuna di noi, diritto la cui esistenza rafforza per contrasto persino il diritto di non abortire, con buona pace dei vari movimenti per la vita. Anche qui: il nomen omen non regge, perché basterebbe intendersi per quale vita si tifa; io personalmente, per quella della donna.

Quello che però sconcerta un po’, nel coro per fortuna non proprio sparuto di coloro i quali questa autodeterminazione la difendono (i pro-choice, insomma) è la costante e puntuale associazione tra il diritto all’aborto e la presunta immancabile “sofferenza” che questa esperienza porta con sé. Come se si dovesse in qualche modo giustificare l’esercizio di un diritto, soppesandolo in dolori fisico-psicologici che ne sarebbero quasi il prezzo da pagare. Come se la donna che interrompesse la gravidanza senza grossi traumi non fosse quasi degna di farlo, come se l’aborto fosse socialmente comprensibile solo dopo profondi sconvolgimenti interiori e laceranti riflessioni.

Ma un diritto ha davvero un peso, un prezzo “etico”? La pretesa a vivere la sessualità femminile in maniera distinta dalla riproduzione deve essere necessariamente connotata da una sensibilità aggiunta, deve necessariamente comportare un fardello spinoso per poter sussistere, per poter essere riconosciuta fondata, seppur tra mille vergogne?

Dovrebbe, al contrario, essere compito del sistema sanitario, nell’ottica del “cure and care” di ippocratica memoria, attraverso ausilii medici e psicologici, far sì che possa essere un diritto da esercitare nel maggior comfort possibile, proprio per evitare gli scempi, intollerabili in qualsivoglia paese vagamente definibile civile, che troviamo nelle cronache dei giornali. Eppure se da un lato si depreca la sofferenza apportata, dall’altro la si abbina all’aborto comunque a prescindere, per giustificare “quella” scelta che altrimenti sembrerebbe meno umanamente comprensibile. O condivisibile. O difendibile.

Un diritto è fondamentale se esiste senza se e senza ma, senza spiegazioni connotazioni o giustificazioni secondarie di natura moralistico-individuale. Esiste persino se non lo si esercita. E quando lo si fa, il ticket non andrebbe corrisposto in dolore e sofferenza.

 

Foto: Gianni Alemanno/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità