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Immigrazione e finanza pubblica: quale rapporto?

Il fenomeno delle migrazioni verso i paesi sviluppati conosce ampi flussi di persone, lavoratori e rimesse: 232 milioni di migranti internazionali e 750 milioni di migranti intra nazionali (fontegrafico).

Gli immigrati hanno rappresentato il 40% della crescita della popolazione nei paesi Ocse durante il periodo 2001-11 (OECD, International Migration Outlook 2013). In Italia, ad esempio, gli stranieri regolarmente presenti sono il 7,4% della popolazione (Istat, 2013) e quelli senza documenti si stimavano attorno a 326.000 nel 2012.

Nel dibattito grande enfasi è posta sull’immigrazione verso i paesi Ocse, tralasciando che il fenomeno più ampio è quello riguardante le migrazioni interne agli stessi paesi in via di sviluppo (PVS).

Le migrazioni per ragioni umanitarie si concentrano prevalentemente nei paesi limitrofi. I PVS ospitano circa l’80% dei rifugiati a livello mondiale: Pakistan, Iran e Siria sono i paesi col maggior numero di rifugiati, mentre fra i paesi sviluppati troviamo USA, Gran Bretagna e Francia, rispettivamente al 9°, 10° e 13° posto. Le domande d’asilo in Europa nel 2012 sono state 355.500, con un aumento del 38% nell’Europa settentrionale rispetto al 2011 e una riduzione nell’Europa meridionale del 27% rispetto allo stesso periodo, ciò dovuto principalmente a meno sbarchi in Italia, che hanno comportato una contrazione delle domande di asilo nel 2012 di più della metà (15.700 richieste).

L’Italia ha un numero di immigrati per ragioni umanitarie relativamente basso, tuttavia sono elevati/evidenti gli sbarchi sulle coste; quest’ultimo aspetto, pur essendo un problema di stringente attualità, rappresenta solo la punta dell’iceberg: fonti del Ministero dell’Interno evidenziano come, nel periodo 2000-2006, il 65%-75% degli immigrati irregolarmente presenti in Italia erano tali perché il visto era scaduto.

Tale argomento suscita nell’opinione pubblica posizioni controverse: solo il 7% della popolazione dei Paesi OECD è favorevole ad un regime di immigrazione meno restrittivo (Mayda, 2008), con ampie differenze tra gli stati. Le principali preoccupazioni sono gli effetti di prezzo sul mercato del lavoro e la finanza pubblica. Il 51% dei cittadini europei ritiene che gli immigrati ricevano di più in benefici sociali di quanto non contribuiscano in tasse ed imposte (Eurobarometer, 2009), mentre solo l’8% di essi sostiene che gli immigrati dovrebbero avere accesso immediato ai servizi e ai benefici sociali appena arrivati (European Social Survey, 2008).

Gli immigrati sono mediamente più poveri, il livello di istruzione varia fra paesi (inferiore ai nativi negli USA, elevato in Europa e, soprattutto, in Italia) e non posseggono capitale fisico. Inoltre, accedono ai programmi di welfare, ossia alle politiche redistributive (anche se è da notare che l'accesso al welfare varia a seconda dei paesi e molti restringono l’accesso a determinati servizi): pagano imposte e contributi sociali, e ricevono benefici monetari:

NB = [ b – t wL ] > 0.

Vi è qualche evidenza empirica (Borjas, 1999) secondo la quale i programmi di welfare hanno un effetto positivo sulla migrazione. Infatti, se t o b aumentano, aumenta anche

[ (1 – t) wL + b ]

e, dunque, cresce anche la migrazione. È il caso dei welfare magnets: le politiche redistributive attraggono immigrati.

L’effetto della migrazione sulla finanza pubblica è teoricamente ambiguo. Per quanto concerne l’effetto sul reddito, la progressività del sistema di tassazione e spesa pubblica potrebbe far sì che istituti di natura redistributiva favoriscano gli immigrati, sottraendo risorse ai nativi. Dal punto di vista della struttura demografica, invece, la concentrazione degli immigrati nella fascia della popolazione attiva potrebbe promuovere la sostenibilità finanziaria dei sistemi di protezione sociale. La questione è prettamente empirica, e assumono valenza fondamentale le specificità istituzionali e le caratteristiche dei flussi migratori; tuttavia è proprio l’evidenza empirica a mancare riguardo al modo con cui gli immigrati pagano per lo stato sociale (Smith, 1998), pertanto molti problemi permangono irrisolti.

Vi sono due approcci in letteratura concernenti tali questioni: la stima della probabilità di utilizzare strumenti di welfare e il calcolo del beneficio fiscale netto NB = [ bm – tm wm ].

Proviamo ad analizzare tali approcci partendo dal primo.

Gli immigrati tendono a ricevere maggiori trasferimenti per welfare (caso USA: Personal responsibility and work opportunity reconciliation act, 1996), seppur con differenze tra i vari paesi. Se si effettua un controllo riguardo le caratteristiche individuali, tuttavia, il risultato si rovescia: coeteris paribus gli immigrati hanno meno accesso al welfare.

Invece, per definire l’impatto fiscale, si possono osservare due metodologie. La prima consiste nell’avvalersi di stime sul bilancio annuale dell’immigrato, della famiglia dell’immigrato (il più utilizzato) o dell’immigrato e dei suoi discendenti. I risultati derivanti da tali stime sono contrastanti (Lee e Miller, 1998), anche se è emerso che solo il bilancio annuale della famiglia dell’immigrato produce un impatto fiscale negativo dell’immigrazione.

L’altra metodologia consiste in stime pluriennali dei benefici netti attualizzati di un immigrato o di un immigrato e dei suoi discendenti. Tale metodo è poco utilizzato, costituisce un ibrido tra teoria ed analisi empirica e conduce a conclusioni non univoche (Storesletten, 2003 ed Auerbach e Oreopoulos, 2000).

Nell’aprile 2009, in Italia, è stata realizzata un’indagine campionaria familiare denominata “Redditi e condizioni di vita” sulla base di interviste condotte dall’Istat nel 2007 su un campione rappresentativo di 20.982 famiglie e 53.772 individui con più di 15 anni. Sono state raccolte informazioni su: redditi netti, alcuni benefici (prestazioni sociali in denaro, 17% del PIL) e imputazione di spese sanitarie e di istruzione. Gli immigrati sono stati identificati col luogo di nascita. Le conclusioni sono molto interessanti.

Anzitutto, si hanno risultati simili nell’analisi a livello familiare: fra gli immigrati extra-EU25, il numero medio di bambini con meno di 6 anni è quasi il triplo rispetto agli italiani.

La conclusione di tale indagine rileva che l’importo medio di imposte e contributi pagato dagli immigrati è inferiore rispetto a quello pagato dai nativi, tuttavia questo dato è più che compensato dai minori benefici ricevuti (soprattutto trasferimenti legati all’anzianità). L’analisi evidenzia dunque un apporto positivo e quantitativamente importante dell’immigrazione alla finanza pubblica italiana: circa 3.000 euro a persona (o a famiglia).

Ciò implica che il timore che sia in atto un drenaggio di risorse pubbliche da parte degli immigrati non trova riscontro nei dati. Gli istituti di tassazione e spesa pubblica considerati stanno operando un rilevante trasferimento netto di risorse dagli immigrati verso gli italiani.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, la teoria economica suggerisce che l’ingresso di immigrati sul mercato del lavoro dovrebbe generare surplus dell’immigrazione ed effetti redistributivi tali che si avrebbe una riduzione dei salari dei lavoratori maggiormente esposti alla competizione degli immigrati. L’evidenza empirica in parte smentisce le previsioni teoriche: l’effetto è positivo o nullo su salario e/o occupazione medi dei nativi (Card, 2007 e 2009; Dustman et al., 2009; Ottaviano e Peri, 2009; D’Amuri e Pinotti, 2010). In dettaglio, si ha un effetto positivo sul salario medio dei residenti ed un esiguo effetto negativo sul salario dei lavoratori meno qualificati. Il gruppo degli immigrati è quello maggiormente colpito dai nuovi arrivi.

 

Si ringrazia per la collaborazione e il materiale fornito il Professor Carlo Devillanova.

 

 

Foto: Rete Studenti Massa/Flickr

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