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Napoli Supersonica: recensione e intervista con Salvatore D’Ascia

Come ogni mia recensione, comincio con le premesse: conosco l’autore. Mi ha scritto, abbiamo parlato ed è arrivato il fatidico “ti mando il mio libro così lo leggi e mi dici cosa ne pensi non voglio una recensione ma un tuo parere a cui tengo tanto perché ti stimo”.

Salvatore D’Ascia, che durante il giorno è un medico cardiologo, ha scritto “Supersonico” edito dalla RAI ERI, perché vincitore del premio letterario “La Giara”, che annovera tra i suoi giurati Celli, Maraini e una persona seria come Sinibaldi.

Cominciamo dal libro fisico: edizione sontuosa, cartonata, prezzo contenuto forse merito del canone che sostiene questi libri, la prima pagina, cioè l’indice che lascia a bocca aperta. Chi ha impaginato? il nome per favore. Peggio non si poteva fare. Solita Italia, edizione elegante, indice da bruciare. La domanda è come sia possibile che non ci sia un correttore di bozze, un impaginatore che abbia controllato il risultato finale. Vuoi che come per il canone una volta incassato il denaro non si deve rendere conto a nessuno? Io l’ho ricevuto in dono il libro, non lo avrei mai comprato se avessi visto una cosa del genere, ma anche perché solitamente quando entri in un supermercato del libro, non si sente spesso chiedere dei libri RAI ERI. Eppure questa volta, forse senza saperlo, perché vincere un concorso non significa sapere cosa si premia per davvero, hanno un narratore vivace e appassionato tra le mani, che adesso come per i bond di guerra probabilmente andrà in giro a fare pubblicità alla prossima Giara, invece di concentrarsi con un serio editor a scrivere il prossimo libro. Eppure la RAI ha in casa un nome come Andrea di Consoli scrittore che ha realizzato l’incredibile: riportare i libri a RAI 1, creando Uno Mattina Cafè, dite poco di questo tempo. Ecco fategli fare l’editor così non vi sfuggono i buoni scrittori.

Chiusa questa dovuta parentesi sulla RAI, passiamo a “Supersonico” o del libro che non ti aspetti. La prima domanda che sovviene è se sia autobiografico, vero, e dove si annida il falso. A differenza dei racconti savianici, qui si può distinguere il vero dal falso, ma il falso, il de relato è stato vissuto da molto vicino, perché è troppo precisa la descrizione e la vividezza. Il protagonista, il libro corre, non usa aggettivi, non si pone come il verbo della metropoli sudista più maledetta del mondo. È un punto di vista, preciso, personale, che vibra di vita. Il clima sa di bafogna, di quella stasi della controra, dove tutto sta per succedere, anche se poi non succede nulla ma la morte sopraggiunge inderogabile. Non è uno sguardo alto, di chi con volontà di onnipotenza cerca di insegnarci a campare, perché il nostro protagonista supersonico è un pesc’ a brod’ e se conoscete il dialetto bene, altrimenti così è, se vi pare.

Tono scanzonato, illuso, mortale. La cifra stilistica di D’Ascia è amaramente ironica, terribilista. Attraverso una ricerca linguistica appena accennata, fonde ricordi di una Napoli, del suo mare, delle sue isole, della fame del dopoguerra che sorprende. E di poi la camorra, il cosiddetto Sistema, che si rivela nella sua angosciosa protervia, violenza, senza pretesa di essere crimine, ma pura e semplice violenza primordiale che incatena una città al suo giustificarsi continuo.

Supersonico è lo sguardo di un ragazzo, che volendo controllare il mondo, forse solo i suoi vicoli, si vede cancellare dalla geografia del Sud con uno sputo. Perché questo è il Sud, dove il male maggiore, la morte, il più delle volte è solo salvezza. Non c’è redenzione nella scrittura di “Supersonico”, ecco una delle caratteristiche fondamentali. Non c’è voglia di riscatto, di visione d’insieme, volendo è un romanzo egoista che guarda avanti il tempo di vedere se al prossimo angolo ci sono i guardi con la paletta, acquattarsi e scappare a tutta velocità l’angolo dopo.

La violenza che erutta dalle pagine è quella più squallida, più banale, ed eccede a limiti ancora, almeno fino ad oggi, non scritti. Mai come in questo caso, qui veramente al Sole fa freddo. Si ride in molti passaggi, si affoga in diversi altri. La scrittura priva di aggettivi e iperboli tanto care al romanzo italiano che non vende un cazzo infatti, si muove come un motorino truccato nei quartieri. Le descrizioni si affrettano, perché c’è sempre un punto incombente, e questo è un grande merito per chi della velocità ne fa un idolo al pari delle madonne e dei padri pio nelle bacheche votive.

Capitolo dopo capitolo si dipana una Napoli parziale, eppure completa. Una città che non guarda più al futuro, perché la gioia di vivere dovrebbe abbattere qualsiasi pianificazione nel tempo a venire, e rimane un continuo e sospeso “ci vediamo dopo”. Un dopo che si muove a scatti, nervoso, che cerca di rispondere prima di tutto allo stesso scrivente, al quale non gli rimane che una splendida sequela di “perché” senza risposta per definire i contorni di una sconfitta esistenziale, banale, eroica in fin dei conti.

D’Ascia narra onestamente, sa che la mattina si sveglia e fa un altro mestiere, ma è veramente appassionato di lettura e di progetti editoriali, e qui l’ingenuità di crede ancora che l’Italia possa essere patria di lettere. Meglio sniffare benzina, rifiutando la coca di “Supersonico”. Napoli è troppo deforme perché una sola scrittura la possa raccontare, ma soprattutto sbaglia chi crede che i salotti o i laboratori di scrittura possano far nascere quel necessario punto di vista su di una città violenta e amara qual è Napoli dei recenti anni. Ecco questo testo spiega come la morte, lo stupore della morte, la cronaca quotidiana siano un dovuto, perché non c’è via di scampo dalla spirale di assurdo che avvolge la città di Masaniello.

Unico modello che emerge da “Supersonico” è la sopravvivenza, a scapito di chiunque, e definizione migliore per il nostro Sud non c’è. Non basta la storia passata, il ricordo di un tempo altro, contrabbandato per migliore, per porre delle fondamenta anche culturali, di riscatto. La precarietà del vicolo dopo, della botta di coca dopo, della rissa dopo, un dopo che porta ad essere inculati letteralmente e un colpo alla testa, letteralmente. Quindi il libro non è adatto a chi ci crede ancora, a chi vuole spiegare e spiegarsi, il libro è un romanzo, ma piace a chi è già morto da tempo. I chiattilli (se il dialetto non sapete, qui possiamo tradurre come personaggio della borghesia buona che pretende di campare e addirittura insegnare a campare agli altri, vedi voce del dizionario savianico) muoiono sempre. Con buona pace della RAI ERI.

Perché operare al cuore e scrivere, non sarebbe meglio concentrarsi soltanto sulla chirurgia e non ammazzare altri alberi? 

Scrivere non è una scelta, ma una esigenza, come respirare, e non posso non farlo. Inoltre, le due cose sono complementari e anzi si migliorano a vicenda, forniscono l'una strumenti utilissimi all'altra. Entrambe comportano studio, sacrificio, dedizione, metodo, allenamento, sintesi e ognuno di questi termini viene da me vissuto ed esplorato, ogni giorno, in entrambi i campi. La medicina mi ha permesso di accedere a persone, luoghi e interi mondi che sono diventati prima scoperta e poi scrittura ed ha allenato il mio occhio nella ricerca dei particolari da raccontare, delle voci da ascoltare, ha addestrato la mia sensibilità a vedere quello che è per altri invisibile, ha rinforzato il mio coraggio per poter vivere storie da cui altri fuggirebbero. E la scrittura e prima di essa la lettura, ha invece addolcito la mia mano e il mio cuore, insegnandomi calma, pazienza e soprattutto umiltà: doti indispensabili.

Da dove nasce la passione per le armi e quali sono quelle tue preferite? 

Il mio interesse è molto inferiore a quello dei personaggi di "Supersonico", tuttavia non nego una certa passione per alcuni strumenti, soprattutto lame. Del resto sono un chirurgo. Ma la vera passione è per quello che le armi rappresentano, per quello che innescano, a tutti i livelli. La persona comune, non addestrata, non immagina quanto sia differente una lama panciuta da un bisturi in punta di diamante, talmente piccolo e resistente che si usa per suturare le arterie, con occhiali che forniscono ingrandimento dieci, o trenta. E parimenti, per strada, nei quartieri popolari, nelle zone di guerriglia urbana è difficile percepire la differenza, anche solo rituale e simbolica, tra una coltellata sopra e sotto la cinta, o tra colpo di pistola alle ginocchia, rispetto ad una fucilata che ti sfonda il cuore. Né si immagina l'affinità genetica, l'automatismo, l'allenamento, la compulsione di alcune persone nei confronti delle armi da fuoco. E in me, invece, questi argomenti sono nati in parte dallo studio, in parte dalla osservazione e dalla curiosità. Perché questa è la chiave: tutti i miei interessi derivano dallo stupore della scoperta. Osservandoli e coltivandoli, vampiro di emozioni e maniaco documentarista, sperimentatore, studioso, sono diventati immediatamente "esigenza" in quanto porte su nuovi mondi: tecnologia, scienza, medicina, storia, antropologia, cronaca, socialità.

Un romanzo su Napoli, un romanzo napoletano, se fossi nato a Como ce lo saremmo risparmiati questo libro? 

Sì, anche se non vi sareste risparmiati me. Avrei cercato di raccontare la realtà più oscura, estrema e marginale di Como, poiché l'ambientazione conta, ma rimane ambientazione. L'importante è vedere l'invisibile.

Come si concilia la tua scrittura violenta con le foto da damerino che si trovano in giro, copi o sfotti? 

Da damerino secondo chi? Secondo quale metro di misura, in che nazione, ambiente, generazione, riferendosi a quale tempo e contesto? Il protagonista di "American Psyco" era un damerino? Un serial killer appare normale? Come appare in foto un deviato mentale? E può egli racchiudere genialità? Quante facce ha un diamante e quanta luce riflette? E un medico in giacca e cravatta è anche un buono scrittore? Uno scrittore non scrive e non rappresenta sempre la sua storia e viceversa: lo scrittore e il suo romanzo si compenetrano, volta per volta, ma in che punti e quando? Se io scrivo una totale biografia essa è tutta e solo la mia storia: scriverò dunque uno e un solo romanzo, poi non avrò nulla altro da dire. E quindi non sono uno scrittore, ma qualcuno che ha scritto un libro. Uno scrittore invece, recepisce e racconta e crea storie ogni giorno: è un osservatore, un tessitore, il motore di una macchina perenne. Per relazionare la fotografia di uno scrittore alla sua scrittura ci vorrebbe un filmato h24 stile grande fratello.

Dopo "Supersonico" hai intenzione ancora di scrivere, o hai già scritto qualcosa che vedremo presto, e se non vinci un altro concorso chi lo pubblicherà mai? 

Supersonico è parte di una ideale trilogia: drammatica e che tocca gli stessi grandi temi. Il secondo romanzo è ambientato a New York e il terzo di nuovo in Campania. Contemporaneamente sto lavorando ad una raccolta di racconti e ad un romanzo cyberpunk. Scrivo e racconto ogni giorno e continuerò a farlo perché vivo, osservo e desidero. Indipendentemente dalle pubblicazioni e dai meccanismi. L'ho già detto: scrivere è come respirare.

Spieghi ai lettori oltre il confine del fiume Garigliano l'allocuzione: pesc' a brod'

Ah, che spirito di sintesi il napoletano! "Pesc a bror'' letteralmente "pesce cotto nel brodo" ad indicare una pietanza semplice è un insulto, ma non molto cattivo, amichevole. Dice che sei ingenuo, che boccheggi, non sei veloce, non sai vedere, ricordare, elaborare, che non sai afferrare al volo e automaticamente un contesto. Insomma: che non sei Supersonico

 

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