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La riforma costituzionale: come, cosa e perché (e perché no?)

Nel merito, cosa va e cosa non va nella riforma costituzionale e del Senato approvata in Consiglio dei Ministri dal Governo Renzi.

Panoramica: il bicameralismo nasce in contesto monarchico, nell’Inghilterra del 1300, dove esisteva la necessità di bilanciare gli interessi aristocratici e del clero – rappresentati dalla camera alta – e gli interessi delle classi cittadine, dei piccoli nobili e piccoli cavalieri – rappresentati dalla camera bassa. Poi è arrivata la Rivoluzione Francese, ed è in quel contesto che nasce il monocameralismo, legato all’idea che la sovranità nazionale fosse indivisibile, e quindi rappresentabile da un’unica assemblea. Il rivoluzionario Emmanuel Joseph Sieyès sosteneva che se la seconda camera fosse stata in disaccordo con la prima allora sarebbe diventata dannosa, se invece fosse stata d’accordo sarebbe diventata semplicemente superflua.

Tra le democrazie al mondo oggi il sistema monocamerale è quello più diffuso in generale (due terzi del totale, più o meno), mentre il sistema bicamerale è più diffuso tra le democrazie di grandi dimensioni. In mezzo esistono molte gradazioni diverse tra uno e l’altro sistema, funzioni diverse delle seconde camere nei sistemi bicamerali, e rappresentatività diverse in base alla struttura organizzativa dello Stato: federale,presidenzialeparlamentare (e in ognuna di queste categorie possono esistere ulteriori gradazioni di un sistema sull’altro a diverse intensità). Esistono ad esempio seconde camere federali (Senato americano e Bundesrat tedesco), corporative (Slovenia e Irlanda), non elettive, tecniche e “cerimoniali” (la Camera dei Lords inglese e il Senato canadese, di completa e diretta nomina governativa), oppure a suffragio indiretto (il Senato francese, eletto da 150 mila grandi elettori), ma anche consultive (che cioè hanno poteri limitati e superabili dalle decisioni della camera bassa, come ad esempio accade con la Sangiin giapponese). Pur con tutte le loro differenze, in tutti questi casi le funzioni della seconda camera sono diverse o comunque secondarie rispetto a quelle della camera bassa.

L’Italia è una lampante eccezione storica dove vige un sistema parlamentare bicamerale perfetto, definito tecnicamente “parlamentarismo a debole razionalizzazione” (ed è facilmente intuibile il motivo), che crea diversi problemi di efficacia, di efficienza e di trasparenza. Il sistema italiano nasce per ragioni storiche di compromesso che sarebbero troppo lunghe da raccontare qui, ma che si possono riassumere così: il Pci voleva un’unica assemblea, mentre democristiani e liberali volevano una seconda camera corporativa: il risultato fu un sistema a due camere con le stesse identiche funzioni, e la creazione costituzionale del Cnel, che doveva svolgere la funziona consultiva corporativa, e che oggi con la proposta del Governo Renzi si vuole abolire, vista la sua totale e comprovata inutilità. Un importante studioso di sistemi costituzionali, K.C. Wheare, definì a suo tempo un sistema a bicameralismo perfetto – inserito nel contesto di una repubblica parlamentare – come merely looking for trouble.

In una proposta di riforma costituzionale del 1985 che voleva introdurre il monocameralismo (e che vi consiglio di leggere poiché contiene molti spunti attuali ed interessanti), il cui secondo firmatario era Stefano Rodotà, tra le altre cose, si legge

È da molti anni ormai che la Carta costituzionale della nostra Repubblica costituisce l’oggetto di varie valutazioni critiche anche severe [...] interessa però sottolineare come il più delle volte, anche in opere culturalmente molto significative [...] sia mancata un’attenzione adeguata alle ragioni ed al modo come le istituzioni furono disegnate in Assemblea costituente [...] Il “costituente” spessissimo viene considerato come un soggetto unitario politicamente, dagli ideali e dai progetti omogenei: il che non è e non lo fu mai perché le distinzioni e le contrapposizioni ci furono e furono esplicite ed aspre [...] È perciò che viene riproposta la composizione monocamerale del Parlamento: per risolvere una questione aperta da quaranta anni che è, insieme, di efficienza, di logica funzionale e democratica per dare cioè un fondamento razionale allo strumento più espressivo e più alto della democrazia rappresentativa.

I problemi del bicameralismo italiano sono perciò noti, riconosciuti, sottolineati e se ne discute da molto tempo, come ho scritto nel post di sfogo precedente a questo. Ma cosa comporta la riforma del Senato su cui si sta impegnando il Governo Renzi?

Innanzitutto, contrariamente a quanto si legge negli acclarati e preoccupati appelli di eminenti intellettuali, questa riforma non propone il monocameralismo, bensì un bicameralismo differenziato come ce ne sono tanti in giro per il mondo tra le grandi democrazie. Se prendiamo le sconclusionate righe dell’appello (tra i cui firmatari c’è pure Rodotà, che nel frattempo deve avere legittimamente cambiato idea) si legge

Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare.

Il monocameralismo, pur non essendo parte di questa riforma, è una legittima forma di governo, quindi anche se fosse questo il risultato finale – e non lo è – non ci sarebbe scandalo alcuno. Detto questo, il progetto di riforma vuole rendere il Senato della Repubblica un Senato delle Autonomie. Ciò significa che le funzioni legislative della seconda camera diminuirebbero, e si concentrerebbero su questioni che riguardano nello specifico le autonomie locali. Per questo motivo si dice “bicameralismo differenziato”: ci sono due camere che fanno cose diverse, se non in alcuni specifici ambiti dove le funzioni rimangono paritarie (come ad esempio le funzioni di riforme costituzionali).

Il nuovo Senato partecipa ancora alla funzione legislativa, ma diventa un organo rappresentativo delle istituzioni territoriali. Quest’ultime attraverso il nuovo Senato potranno avere più potere di controllo sulla legislazione che le riguarda (ad esempio le proposte di modifica del Senato in materie di competenza territoriale possono essere superate solo con voto a quorum rafforzato a maggioranza assoluta nella Camera dei Deputati). Le altre funzioni non legislative del Senato (come la nomina dei giudici della Corte Costituzionale, e l’elezione del Presidente della Repubblica) rimangono invariate. A questo si aggiunge un rafforzamento dei poteri del Governo simultaneamente all’inserimento di nuovi limiti per la decretazione d’urgenza (di cui in Italia si è sempre abusato).

Il nuovo Senato non sarà più eletto direttamente come la Camera dei Deputati, bensì sarà composto da

  • Presidenti delle Giunte regionali e delle Provincie di Trento e Bolzano
  • I sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma
  • Due membri eletti tra i componenti del Consiglio regionale
  • Due sindaci eletti dai sindaci delle Regioni
  • Ventuno cittadini nominati dal Presidente della Repubblica, per la durata di sette anni, che abbiano onorato l’Italia per meriti in campo sociale, artistico, letterario o scientifico
La composizione del nuovo Senato è piuttosto originale, bisogna ammetterlo, ma molto meno originale rispetto ad un bicameralismo perfetto. I partecipanti dell’Assemblea che ricevono il loro mandato dal ruolo occupato nelle amministrazioni locali – e quindi parliamo di eletti indiretti – e dai membri che vengono eletti da una scelta interna ai sindaci e ai componenti regionali, danno al Senato una caratura fortemente regionalizzata. Nonostante l’Italia non sia uno Stato federale questa composizione non pecca di incoerenza, visto che il nostro sistema politico da molto spazio alle Autonomie locali.
 
Qualche dubbio invece emerge nei confronti dei membri nominati dal Presidente della Repubblica, o meglio, dal numero relativamente elevato che questi occupano (21) all’interno di un’Assemblea che arriverà a contare in tutto 148 membri. Il fatto che il nuovo Senato non voti la fiducia al Governo è un attenuante, ma rimane comunque anomala una selezione ti tale portata – senatori a vita esclusi – nelle mani di una sola carica istituzionale, anche se è la più importante della Nazione. Non si capisce la ratio di tale scelta, se non un’infondata aspettativa di veder elette persone che “abbiano onorato l’Italia eccetera eccetera”. La cosa è troppo arbitraria per poter essere seria. I senatori a vita sono un’altra cosa, ed hanno un loro senso, anche se forse un po’ anacronistico.
 
Beninteso che non è un caso unico tra le democrazie. Ralf Dahrendorf, filosofo e politico tedesco, sosteneva in un suo libro come nel mondo contemporaneo, dove la legge si trova a disciplinare argomenti sempre più complessi che richiedono conoscenze tematiche specifiche, la soluzione più in linea con la democrazia sarebbe quella di rivolgersi a organismi tecnici indipendenti dalle logiche politiche e partitiche. Secondo Dahrendorf ad esempio la Camera dei Lords inglese svolge molto bene questo ruolo, composta com’è da persone nominate per meriti conseguiti e che rappresentano diverse aree di competenze specifiche. Solo che gli inglesi non sono italiani, e trasportare questa logica meritocratica in Italia può essere quanto meno rischioso (e sembra un contentino che segue l’eliminazione del Cnel). Un altro caso molto simile è il Senato sloveno, anche se di caratura molto più corporativa che tecnica (vengono lì nominati dalle categorie economiche e sociali i rappresentanti dei sindacati, delle università, degli industriali e dei lavoratori autonomi).
 
La durata del mandato di ogni senatore corrisponde alla durata del suo mandato territoriale, e nelle funzioni senatoriali non vengono percepite alcune indennità. Nella riforma costituzionale vengono anche fissati dei limiti per gli emolumenti spettanti ai Presidenti di Giunta regionale (che non possono superare l’importo di quelli percepiti dai Sindaci dei comuni capoluogo). Inoltre vengono vietati rimborsi (o analoghi trasferimenti monetari) in favore dei gruppi politici rappresentati nei Consigli regionali (ed è buona cosa).
 
 
Tutto questo va però guardato in prospettiva dell’altro grande cambiamento che il Governo Renzi si propone di fare, e cioè la riforma del famigerato Titolo V della Costituzione – che è quella parte della Carta che regola i rapporti tra Stato-Regioni, e che ha creato non pochi problemi interpretativi da quando è entrato in vigore dal 2001 (è spiegato bene qui).
 
Un altro dubbio che inevitabilmente emerge riguarda la soppressione delle provincie, non affrontata da questo disegno di legge costituzionale, e che sarebbe opportuno capire dove e come si inserirà nell’assetto del nuovo Titolo V, che peraltro prevede – ed è un bene – l’eliminazione delle competenze legislative concorrenti (a favore della dualità “esclusiva”-”residuale”), che sono quelle che sempre più spesso intasano i Tribunali Amministrativi Regionali. Ciò dovrebbe semplificare di molto la generazione legislativa sia dello Stato che delle regioni. Ma rimane la domanda: e le province?

Alcune opinioni che si trovano in giro. Tralascerò quelle che riguardano le critiche alla “non elezione” del Senato, perché le trovo puerili e francamente poco concrete, visto che ad esclusione di quei 21 nominati dal Presidente della Repubblica (su cui ho già espresso i miei dubbi), tutti gli altri componenti sono stati votati ed eletti nelle proprie regioni e nei propri comuni. Più fondata è la critica di chi dice che con le liste bloccate dell’Italicum – seppur corte ricordo, che sono diverse da come erano nel Porcellum – si rischia di avere un Parlamento di nominati (in realtà nelle regioni e nei comuni ci sono le preferenze, quindi in realtà diminuirebbero di molto). Il rischio c’è per la Camera, ma esisterebbe ugualmente se vi fossero le preferenze, perché i partiti potrebbero indirizzare i voti sul “proprio” uomo, come d’altronde si è sempre fatto. Solo che qui entriamo nel merito della legge elettorale, ed è un’altra storia.

C’è poi chi si chiede se un Senato siffatto abbia diritto ad eleggere il Presidente della Repubblica. Secondo me, sì, visto che già oggi – come recita l’art.83 della Costituzione – “All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale”. Rimango meno convinto sui 21 nominati dal Presidente della Repubblica, che dovrebbero essere esclusi dalla votazione.

Altro punto che poco mi convince, ma su cui non posso pronunciarmi visto che non si conosce l’eventuale carico di lavoro del nuovo Senato così strutturato, è la disponibilità di tempo che un eventuale sindaco valdostano potrebbe dedicare al Senato. È vero che le competenze diminuiscono, e che quindi il Senato sarà al lavoro molto meno tempo, però il rischio è che i senatori non possano dedicarsi efficacemente ad uno e l’altro compito, e in effetti si tratta di persone elette per fare mestieri differenti da quello di Senatore. Quando saranno chiari i tempi effettivi di impiego del Senato si potrà fare una valutazione più oggettiva.

Nel complesso quindi questa riforma, seppur con le sue pecche e la sua momentanea confusione, sembra andare nella giusta direzione: si velocizza il processo legislativo, si pone un freno alla decretazione d’urgenza, si abolisce finalmente l’assurdo bicameralismo paritario, si diminuiscono i parlamentari, si prova a dare una forma più “federale” allo Stato e si prova a rendere più netta la divisione delle competenze tra Stato e Regioni. È una riforma perfetta? No, e non esistono riforme perfette.

Sono però convinto di due cose: che se questa riforma andrà in porto (e c’è poco da crederci in realtà, visti i tempi lunghi, visto la guerra sotterranea nel Pd che prima o poi esploderà, vista la debolezza di Berlusconi che potrebbe fargli scegliere di far saltare il banco), dicevo, sono convinto che se questa riforma andrà in porto l’Italia potrà avvicinarsi di più ai funzionamenti democratici in vigore nel resto del mondo, uscendo da questo pessimo e singolare sistema istituzionale. In secondo luogo sono convinto che chi urla all’autoritarismo nei confronti di una riforma di questo tipo – che è una normalissima riforma istituzionale che semmai ci avvicina, e non ci allontana, agli altri sistemi democratici moderni – probabilmente lo fa per abitudine, per spaesamento, per un’inconsapevole voglia di bloccare o rimandare – ancora e ancora – quello che probabilmente loro non sono mai riusciti a fare, pur con i passati buoni propositi.

Credo sia tutto sommato un riflesso condizionato che rimanda al periodo del berlusconismo – che ha fatto molti più danni a sinistra che a destra -, alle sue dualità ed ai suoi eccessi, e l’impossibilità di superarlo senza traumi. Tutto questo fa inorridire un certo tipo di intellettuale rimasto ancorato a quel ventennio; vedere realizzare delle riforme che la propria parte politica – destra o sinistra – non è mai stata in grado di attuare – pur auspicandole -, quelle riforme addirittura storiche, e vederle realizzate da quello che scherzando Claudio Cerasa chiama il “governo bim bum bam”, deve effettivamente essere un trauma.

E la si può anche capire questa sorta di repulsione incondizionata, come la si può tranquillamente, con rispetto, ascoltare e poi ignorare.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.173) 5 aprile 2014 09:47

    Questa parodia di riforma conterrebbe anche alcuni spunti condivisibili - se non fossero solo spunti. Ma è scritta sulla carta da formaggio, senza rifletterci molto, per gli esclusivi intenti di fare populismo e accentrare il potere nelle mani del (futuro) governo. Io sono terrorizzato nel pensare a un governo in stile Berlusconi, Monti, Letta, o Renzi che per l’intera durata di una legislatura possa sostanzialmente assomigliare a una dittatura del capo del partito, visto che il Senato, nella pratica, sarebbe svuotato di potere.

    E’ una miscela esplosiva: parlamentari nominati dal capo, un premio di maggioranza esagerato e aleatorio, una sola camera con troppi poteri e l’altra solo di figura. Ci sono meccanismi bizantini e poco chiari: si da’ molto risalto al fatto che diminuiscono le spese, ma non si può valutare come sarà l’effettivo funzionamento a regime. Si dice che ci saranno ulteriori limiti alla decretazione d’urgenza, ma a me pare che questi limiti siano già descritti perfettamente nella Costituzione e, colpevolmente, vari Presidenti della Repubblica li hanno ignorati.

    Insomma, è una presa per i fondelli per quello che dice e per COME lo dice.

    Non mi piacciono neppure i paragoni con altri Stati, citati per dire che l’Italia è un caso diverso e che dovrebbe omologarsi. Il fatto è che l’Italia è DAVVERO un paese diverso dagli altri, dovremmo smetterla di copiare in modo acritico. Se proprio si deve fare un paragone, lo si faccia completo: dove esiste un paese con un Senato come quello proposto, unito a una Camera come la nostra, piena di condannati, un’assenza di serie leggi sul conflitto di interessi e una legge lettorale bizantina?

    Mi auguro che questa riforma venga cassata.

    Saluti,

    Gottardo

  • Di (---.---.---.226) 5 aprile 2014 19:50

    Inchiappettum >

    La nuova legge elettorale Italicum è trattata da politici ed esperti come se fosse una sorta di torneo calcistico. Fatti i dovuti distinguo lessicali.
    Con dovizia d’argomenti si discute su quanti sono i posti da titolare da riservare (4-5%) a degli “oriundi”. Si disserta con calore su quali risultati positivi (37-40%), ottenuti nel 1° turno, possano già aggiudicare il “premio” (15%) destinato al vincitore.
    Dato per “acquisito” è che, in ogni caso, sarà la finale (ballottaggio) a decretare la “giusta” vittoria. Proprio questo sembra logico ed esauriente anche per i sedicenti cultori e difensori dei valori “democratici”.

    Da annotare.
    Nel caso dei tornei calcistici in gioco c’è un trofeo da aggiudicare periodicamente.
    Al contrario, nell’elezioni politiche è in ballo la composizione definitiva della “rappresentanza” popolare ed il mandato a governare il paese per l’intera legislatura.
    Ancora.
    Di norma ad una finale calcistica gli stadi sono stracolmi di tifoserie.
    Viceversa lo scenario politico italiano non è certo “bipolare” ed ancor meno “bipartitico”.
    Al ballottaggio può pesare (e non poco) l’incremento dei “delusi” che si astengono. Molti altri elettori si troveranno “costretti” ad optare per il “meno peggio”.
    Ergo.
    Nulla esclude che una formazione politica, con solo il 25% dei voti, al ballottaggio possa ottenere la maggioranza assoluta dei seggi dell’unica Camera eletta.
    Governerà così per ben 5 anni il paese “godendo” della massima autonomia decisionale.

    Se non si introducono specifici limiti e contrappesi l’Italicum assomiglia più ad un “Inchiappettum” dalle malaugurate conseguenze.
    Trattare di legge elettorale non è materia da trascrivere in un Dossier Arroganza

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