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Poesia e delirio in Anne Sexton

Nella sua veste di acclamata biografa "ufficiale", Diane Middlebrook scrive della grande poetessa americana Anne Sexton:

What kind of woman was she? Spirited, good-looking: tall and lean as a fashion model; a suburban housewife who called herself Ms. Dog; a daughter, a mother; a New England WASP; like Emily Dickinson, "half-crack'd." And what kind of poet? Intimate; confessional; comic; insistently, disruptively female; a word wizard; a performance artist; a crowd pleaser. Those were some of the things you could learn during her first fifteen minutes onstage.

La Sexton fu in sostanza, per indole e doti fisiche, intellettuali e artistiche, una grande comunicatrice che riuscì ad imporsi con il proprio essere e con la qualità dei contenuti del proprio messaggio poetico. Nello stesso tempo fu, in privato, donna (e madre) fatalmente chiamata a vivere quel (da lei aborrito) genere di vita da persona assolutamente comune che sperimenta giorno per giorno, come farebbe un qualsiasi pesce fuor d’acqua, la mancanza di uno spazio vitale sufficiente per vivere soddisfacentemente.

I disagi esistenziali e la più profonda delle solitudini la porteranno alla tomba a soli quarantasei anni (Anne morì suicida a Weston, Massachusetts, nel 1974). A questo disagio, a questo viscerale atteggiamento di rifiuto nei confronti di una esistenza "ordinaria" considerata da Anne "in bianco e nero", si aggiungono quelli procuratigli dal disturbo bipolare che accompagnò per la maggior parte dei suoi giorni la poetessa americana. Di questo "mal di vita", che trova radici robuste nell’infanzia, nella prima giovinezza della scrittrice e nei suoi problematici rapporti con i genitori - è inequivocabile testimonianza la poesia The farmer’s wife:

From the hodge porridge/of their country lust,/their local life in Illinois,/where all their acres look/like a sprouting broom factory,/they name just ten years now/that she has been his habit;/as again tonight he'll say/honey bunch let's go/and she will not say how there/must be more to living/than this brief bright bridge/of the raucous bed or even/the slow braille touch of him/like a heavy god grown light,/that old pantomime of love/that she wants although/it leaves her still alone,/built back again at last,/mind's apart from him, living/her own self in her own words/and hating the sweat of the house/they keep when they finally lie/each in separate dreams/and then how she watches him,/still strong in the blowzy bag/of his usual sleep while/her young years bungle past/their same marriage bed/and she wishes him cripple, or poet,/or even lonely, or sometimes,/better, my lover, dead.

Il componimento, incluso nella prima raccolta poetica della Sexton pubblicata nel 1960 To Bedlam an Part Way Back, appare una esplicita e lucidissima presa di posizione con la quale l’autrice intende rigettare i cliché di una vita familiare che si inserisce all’interno dei ben noti canoni imposti dall’american way of life . Esso prende inequivocabilmente posizione contro le meschine finzioni e le piccole e banalizzanti convenzioni esistenti nei rapporti familiari che di tale modo di vivere caratterizzano l’intima essenza.

«Fino ai ventotto anni – ebbe a dire di se stessa Anne Sexton - avevo una specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito si aspettava da me... Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi».

Crediamo sia naturale, a voler riconsiderare con compassione quanto finora premesso e soprattutto a voler rileggere i versi – vere e proprie confessioni intime - di Anne Sexton, provare, a quarant’anni dalla sua morte prematura, sentimenti di grande rimpianto per ciò che quella che a tutti gli effetti viene considerata una tra le più grandi poetesse del Novecento americano ancora avrebbe potuto dare al mondo della poesia e della cultura in generale. Poesia, quella della Sexton, che di volta in volta appare in grado di cogliere e di immortalare abilmente sensazioni fugaci, sogni, deliri e incubi di ogni sorta, "penitenze" personalissime e reminiscenze a tratti "favolistiche", sentimenti dolorosi e di rimpianto per ciò che nella vita sarebbe potuto essere e non è stato, inferni terreni e sofferenze psichiche inenarrabili fissate sulla carta da un verseggiare che molto spesso si presenta duro, spigoloso, contorto, ma anche, non di rado, come in genere succede in prosa, suadente, colloquiale, intimissimo, confidenziale.

Anche per questa immediata capacità della sua scrittura di raggiungere talvolta senza mediazioni l’animo del lettore iniettando nel più profondo di esso grappoli di emozioni, per questo irrefrenabile desiderio di trasmettere ad altri il messaggio insito nelle proprie composizioni poetiche, Anne Sexton si presenta come poetessa assai originale e raffinata, emozionalmente coinvolta - e perciò straordinariamente coinvolgente - estremamente significativa quanto a contenuti. È, quella dell’artista del Massachusetts, una poesia che riassume la complessità di un’esistenza segnata dalla presenza sempre percettibile della morte e dalla malattia mentale, un’arte che per lunghi anni ha tenuto insieme i lembi di una personalità essenzialmente disorganizzata e difficile, un’arte che molto a lungo, lo si può facilmente immaginare, ha svolto in lei anche funzioni terapeutiche e catartiche.

 “Sono la regina dei miei peccati dimenticati”, scrive la Sexton in una delle sue liriche più conosciute, You, Doctor Martin, sorta di presa di coscienza e di dichiarazione disperata del proprio disagio esistenziale e mentale: “Sono ancora perduta?/Un tempo ero bellissima. Ora sono solo me stessa/contando questa e quella fila di mocassini/aspettando sul silenzioso banco di sabbia”. 

Anne Sexton strinse relazioni con alcuni grandi letterati a lei contemporanei come Maxine Kumin, Robert Lowell, George Starbuck e Sylvia Plath. Proprio Maxine Kumin, che di Anne fu grande amica, scrive che

I fatti della problematica e caotica esistenza di Anne Sexton sono ben noti; nessun altro poeta americano dei nostri tempi ha raccontato pubblicamente così ad alta voce una mole così vasta di dettagli riguardanti la propria vita privata. Mentre la sincerità di queste rivelazioni ha attratto molti lettori, specialmente donne che si sono identificate nell’aspetto femminile delle poesie, un certo numero di lettori e di critici, per la maggior parte, anche se non esclusivamente, maschi, se ne adontò.

Le opere della poetessa americana suscitano nel lettore il sorgere di sensazioni, spesso intimamente connesse alla sessualità, anche quando esso realizza un approccio casuale con i versi sextoniani. Il repertorio delle composizioni poetiche dell’autrice, del resto, è, sui temi dell'interiorità umana, veramente cospicuo (la raccolta completa delle poesie di Anne Sexton, The Complete Poems, pubblicata dalla Houghton Mifflin Company di Boston, è uscita nel 1981): da The ambition bird:

He wants, I want/Dear God, wouldn't it be/ good enough to just drink cocoa?/I must get a new bird/and a new immortality box./There is folly enough inside this one. 

da December 11th:

Then I think of you in bed/your tongue half chocolate, half ocean,/of the houses that you swing into,/of the steel wool hair on your head,/of your persistent hands and then/how we gnaw at the barrier because we are two.

È veramente facile rimanere avvolti in un sentimento di infinito rammarico e di perdita irreparabile quando della Sexton volessimo ricordare non solo la morte prematura ma anche la travagliata esistenza, le più intime solitudini, l’infelicità profonda, gli effetti distruttivi che ebbe su di lei il divorzio da suo marito Kayo nei primi anni Settanta, l’alcolismo cui si era abbandonata nel periodo immediatamente precedente alla sua morte, il delirio, infine, che la faceva sprofondare frequentemente nella depressione e che ne devastava ineluttabilmente l’anima e la gioia di vivere. Un delirio del quale, però, erano diretta derivazione i suoi numerosi capolavori.

 

 

 

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