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Contrazione fiscale espansiva, edizione giapponese

Tra pochi giorni, il primo aprile, con il nuovo anno fiscale giapponese entrerà in vigore l’aumento dell’imposta sulle vendite, l’equivalente (non esattamente, ma non sottilizziamo) della nostra Iva, che si porterà dal 5 all’8%. È il primo rialzo da diciassette anni, ed è stato pensato per contribuire ad avviare verso l’equilibrio (o almeno un minore disequilibrio) il deficit di bilancio pubblico, che viaggia poco sotto il 10% di Pil. Alcuni effetti stranianti della Abenomics sono tuttavia già in essere.

Il Pil giapponese dell’ultimo trimestre 2013 è cresciuto di un esile 0,7% annualizzato, con la componente dei consumi delle famiglie in progresso di solo lo 0,4%. Si contava in un neppure troppo virtuoso effetto di accelerazione dei consumi di beni durevoli da parte delle famiglie (i cosiddetti big ticket items), per anticipare l’aumento delle imposte indirette, ma pare che le cose non siano andate in questi termini.

Ora c’è una evidente preoccupazione per l’impatto depressivo dell’aumento Iva sui consumi, dopo che il primo anno di vita della Abenomics ha mostrato una fiammata inflazionistica da costi (sui prezzi dell’import), ed una sensibile riduzione della fiducia dei consumatori, che si sono ritrovati col potere d’acquisto eroso dalla corsa dei prezzi. Il governo Abe ha quindi esercitato una robusta moral suasion sulle imprese per giungere ad aumenti delle retribuzioni di base (e non solo dei bonus), con risultati sinora non eclatanti.

Il mercato del lavoro giapponese appare sempre più duale, con un nucleo centrale di insider protetti ed una schiera di outsider semi-precari, che hanno strutture retributive molto scarne. Si calcola infatti che i lavoratori a tempo determinato o part time siano il 36% del totale. Altro dualismo da sempre rilevante, in Giappone, è quello tra grandi imprese e PMI, con le seconde che rappresentano oltre due terzi del totale e che non appaiono particolarmente ansiose di alzare la componente fissa della retribuzione. Sul versante che dovrebbe rappresentare la “terza freccia” della Abenomics, quella delle riforme dal lato dell’offerta, per liberalizzare i mercati del lavoro e dei prodotti, tutto tace, in uno scenario molto italiano fatto di molti proclami ed assai pochi fatti. Il tutto tacendo del fatto che le riforme dal lato dell’offerta tendono a produrre disinflazione o deflazione.

Quello che appare viepiù grottesco è il fatto che, dopo furiosi dibattiti politici (anch’essi di matrice tipicamente italiana, almeno riguardo l’aspetto surreale) circa l’opportunità di alzare l’Iva, Abe ha deciso di controbilanciare la stretta fiscale del primo aprile con misure compensative (cioè espansive) di origine anch’essa fiscale. Come segnala il Financial Times, senza trovare nella vicenda alcunché di singolare o più propriamente ridicolo,

«Il governo Abe ha stanziato 5.500 miliardi di yen di un pacchetto fiscale di spesa – più dei 4.500 miliardi di yen attesi come gettito aggiuntivo dalla tassa sui consumi il prossimo anno – per controbilanciare l’impatto dell’aumento»

Ora, se obiettivo di questa tassa era di avviare un timido consolidamento fiscale ed invece si giunge a produrre deficit aggiuntivo per evitarne gli effetti depressivi sull’attività economica, la situazione appare grave ma assai poco seria. Nel frattempo tutti guardano alla Bank of Japan, che dovrebbe fornire nuovo stimolo per compensare a sua volta l’aumento Iva ma la tempistica è incerta, dopo che le ultime previsioni del governatore Kuroda vedono l’inflazione stabile all’1,25% almeno sino all’estate. Tensioni internazionali permettendo, visto che queste ultime di solito portano con sé un rafforzamento dello yen. Per il primo trimestre solare 2014 le stime di Pil giapponese prevedono un balzo del 4,1% annualizzato, realizzato soprattutto sulla “presa in prestito del futuro”, cioè sui consumi per evitare l’aumento Iva (se ci saranno). Ma già sul secondo trimestre solare, il primo dell’anno fiscale giapponese, si prevede una contrazione annualizzata del 3,7%. Il tutto a fronte di una crescita di Pil potenziale del paese stimata allo 0,7%.

Quindi, riepilogando: sinora il Giappone ha avuto un’inflazione da costi, guidata dalla svalutazione del cambio, quindi per definizione "temporanea"; nessuna riforma strutturale dal lato dell’offerta; una posizione fiscale ancora molto problematica, per usare un eufemismo. Il tutto in un paese demograficamente ostile ad una ubriacatura di consumi. Tutte cose che qui erano state previste da tempo.

Almeno ora avremo una realizzazione pratica del concetto di “stretta fiscale espansiva”. Che nella declinazione giapponese consiste nell’aumentare regressivamente alcune imposte per mettere in campo una spesa pubblica superiore al gettito aggiuntivo. Ma il governo ha trovato la soluzione, molto behavioural-style: fino al 2017 i dettaglianti potranno infatti esporre i prezzi al netto dell’imposta sulle vendite, purché venga chiarito da qualche parte che a quel prezzo occorre sommare l’imposta. Un mondo fatato, sinché dura. Perché ai governi italiani non è venuta in mente una simile trovata per stimolare la fiducia dei consumatori?

 

Foto: YoTuT /Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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