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Napolitano: the end

Si parla ormai correntemente delle prossime dimissioni di Napolitano, c’è chi le prevede per giugno (dopo le europee) chi per dicembre (dopo il semestre italiano alla Ue), ma nessuno scommette sul fatto che resista un anno. A preparare il terreno ha pensato il suo vecchio e sodale di corrente Emanuele Macaluso, che ha ripetutamente dichiarato che Napolitano non avrebbe completato il mandato, facendo pensare ad una decisione non lontana. La cosa in sé è perfettamente comprensibile e spiegabile: l’uomo si avvia allegramente ai novanta anni, un’età inadatta a carichi eccessivamente onerosi. Peraltro, lo stesso interessato, accettando il suo secondo mandato, aveva avvertito che se ne sarebbe andato prima dei sette anni. Dunque, i motivi non mancano. Eppure, di motivi ce ne sono anche altri.

In primo luogo c’è un fallimento politico che pesa. Napolitano aveva condizionato la sua permanenza al Quirinale ad un preciso (anche troppo preciso) progetto politico: nomina di un governo di “ampie convergenze” presieduto dalla sua creatura Enrico Letta, poi riforma costituzionale con metodo sprint (in spregio all’art 138), riforma elettorale, semestre italiano Ue con Letta ed infine, elezioni entro il 2015 o, al massimo, 2016.

Poi, il governo delle larghe intese è colato a picco a novembre e, con lui il comitato dei saggi che dovevano riformare la Costituzione. La legge elettorale ha preso una strada diversa dal previsto con l’inopinato accordo Renzi-Berlusconi. Infine, è affondato Letta e Napolitano ha dovuto ingoiare l’indigesto Renzi, che, a quanto pare, farà il semestre Ue, ma che già ha iniziato ad entrare in rotta di collisione con gli “alleati” europei.

Insomma, del piano ideato da Napolitano non è rimasta pietra su pietra ed è tutto spazzato via. Legittimo che l’interessato ne tragga le dovute conseguenze.

Ma c’è ancora altra ragione. Tutto lascia intuire che Napolitano non abbia resistito all’uno-due della richiesta di messa in stato d’accusa e del libro di Friedman. Sulla messa in stato d’accusa quello che ha pesato di più non è stata tanto la richiesta del M5s (isolato da tutti, compresa Sel, nonostante la fondatezza dei motivi), quanto piuttosto una cosa poco osservata: l’astensione di FI. Va da sé che un voto favorevole del partito berlusconiano avrebbe comportato le dimissioni immediate del Presidente, anche se, formalmente, la richiesta sarebbe stata ugualmente archiviata: un arbitro non può reggersi solo sul voto del suo partito, occasionalmente in maggioranza grazie dall’ortopedia elettorale. Ma l’ex Cavaliere non ha voluto infierire e non si è unito ai grillini (come, pure, aveva ripetutamente minacciato di fare) ed ha concesso la sua astensione. Come dire che gli ha regalato un’uscita di scena onorevole, ma, non votando contro la messa in stato d‘accusa, ha lanciato un messaggio tacito ma chiarissimo: “Fai con calma, ma togli il disturbo”.

E la cosa è stata tanto più pesante per la convergenza con le rivelazioni di Friedman. Certo, tutti sapevamo dal 2010 che stava per partire la candidatura di Monti, che il Presidente della Repubblica avrebbe visto molto volentieri al posto di Berlusconi (parere condiviso anche da altri, come Fini, De Gennaro ecc.), però un conto è “sapere ufficiosamente” certe cose ed un conto è che qualcuno ci metta su il timbro e le renda ufficiali. Su un piano strettamente giuridico quelle rivelazioni, pur danneggiando Napolitano, non erano tali da incastrarlo irrimediabilmente, collocandosi su una ambigua battigia. Ma sul piano dell’immagine il danno era irreparabile e sembrava fatto su misura per stimolare l’ostilità di Berlusconi e dei suoi.

La cosa è stata lasciata decantare, un po’ per non darla vinta al M5s (sarebbe stato troppo alla vigilia di elezioni come quelle europee) un po’ per qualche residuo fair play istituzionale. Per di più Napolitano ora non ha più Bersani o Epifani al Pd ma uno come Renzi con il qualche c’è sempre stata ruggine e che, infatti, già non gli risparmia ruvidezze di rara tangheraggine.

Dunque, si capisce che, a meno di avvenimenti imprevedibili, Napolitano ha fatto il suo tempo e si capisce che già si pensa alla successione. Molto dipende da come andranno le europee, dopo di che inizieranno i veri giochi, ma ragionando a bocce ferme, sugli equilibri parlamentari attuali, qualche considerazione si può fare.

Per eleggere il Presidente ci vuole la maggioranza assoluta, cioè 505 voti (se la memoria non mi inganna). Il Pd dispone del pacchetto più grosso, con circa 400 voti e, a meno di stravaganti convergenze degli altri, senza il Pd non si può eleggere nessuno. Però, il Pd non ha da solo i voti necessari. In teoria, potrebbe farcela alleandosi con alcuni minori (Sel, resti di centro, qualcuno del gruppo misto), ma sappiamo tutti che il Pd ha la compattezza di un budino. Per di più, la prossima volta Renzi pretenderà di fare da regista nella doppia veste di segretario del Partito e Presidente del Consiglio, il che complica tutto perché i gruppi parlamentari Pd vedono Renzi come il peperoncino negli occhi e preferirebbero pulirsi i denti con la lima piuttosto che seguire le sue indicazioni.

L’unica è creare una forte maggioranza preventiva il che si ottiene o sommando i voto Pd a quelli del M5s o con quelli di Fi e alleati. Non mi pare molto probabile, a questo punto, una maggioranza Pd-M5s, per cui il tentativo partirà dalla formula Pd-Fi. Il che mette automaticamente fuori gioco candidati come Prodi, già trombato dal Pd ed inviso più d’ogni altro a Berlusconi. A meno che…

Potrebbero saltar fuori l’eterno Giuliano Amato o D’Alema. Accettabili dal centro destra, ma assai meno popolari nel Pd. Poi è difficile immaginare Renzi spendersi per questi due candidati e diventa difficile cercare fra i politici, per cui occorre cercare suoi dal Palazzo. O per lo meno, da quel Palazzo.

La candidatura autorevole e naturale, sarebbe quella di Draghi che già si era profilata a marzo scorso, però il candidato non ha mai mostrato troppo interesse per questa prospettiva. Anche se ormai gli resta poco (scadrà a fine 2016) alla Bce, è facile capire che sia più interessato a restare nel mondo finanziario ed, inoltre, c’è sempre il dubbio che il suo nome venga lanciato e poi rapidamente impallinato da un plotone di franchi tiratori. Non si vede proprio chi gliela fa fare di imbarcarsi in una avventura così perigliosa.

Ma il punto è un altro: il candidato deve essere “potabile” per il Pd, ma deve piacere anche a Forza Italia e a Forza Italia, non ci vuol molto a capirlo, interessa solo una cosa: la grazia per il suo capo e la garanzia di bloccare gli altri processi. A Berlusconi non interessa altro e, almeno per ora, non è facile immaginare una Fi che si ribelli al suo capo scavalcandolo. Dunque il pallino si fermerà sulla casella “grazia” e favorirà il candidato che garantisca di concederla. Cosa non semplicissima per il Pd che correrebbe il rischio di un ammutinamento generale della fase e di regalare una valanga di voti al M5s. Come uscirne? Se il piano “grazia” dovesse prendere quota, si potrebbero tentare solo due strade. O un “candidato neutro” (qualche ex presidente di Corte Costituzionale o di Cassazione o di Consiglio di Stato), presentato come soluzione tecnica per uscire dall’impasse dopo una lunga serie di votazioni a vuoto.

Ovviamente nessuno parlerebbe di grazia che sbucherebbe come una sorta di motu proprio di un capo dello Stato non ascrivibile a nessuno schieramento e, perciò stesso, i cui atti non sarebbero imputabili a nessun partito. Oppure, al contrario, questo potrebbe essere un gran gesto di “pacificazione nazionale”, il suggello sulla “guerra civile berlusconiana” per la difesa del paese e via colando melassa. E chi potrebbe fare il gran gesto se non il suo antagonista democratico, il Mario dei democratici che grazia il Silla della destra? Ma è ovvio… Prodi.

Ovviamente gli scenari potrebbero essere anche altri. Vedremo.

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.129) 26 marzo 2014 00:25
    Napolitano, adesso che è completamente sputtanato dalle sue malefatte e dai suoi stessi "amici", forse vorrebbe potersi tirare indietro e finire i suoi giorni nell’anonimato, ma è ostaggio di se stesso, della sua presunzione e della sua smania di protagonismo.
    E’ sempre stato un numero due, o tre, o anche meno, nel suo partito: arrivato ai vertici nel Paese, ha creduto davvero di essere finalmente un numero uno e come tale si è comportato: tipico dei mediocri, che non hanno il senso delle proporzioni né l’umiltà per capire i propri veri limiti.
    Non lo lasceranno libero, dovrà bere fino in fondo l’amaro calice che lui ha preparato e riempito pensando di farlo bere ai suoi concittadini, specialmente ai più deboli che avrebbe dovuto invece rappresentare e garantire - per quanto possibile - dalle porcherie dei malfattori che l’hanno sostenuto.
    E BEN GLI STA! 

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