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Anche solo per una strofa che mi piace… Tre anni fa, la Siria

di Eva Ziedan

Sono trascorsi tre anni dall’inizio della rivoluzione siriana. Rivoluzione? Rivolta? Guerra civile? Conflitto?

Sono termini che si usano non solo sui mezzi di informazione internazionali, ma anche tra gli stessi attivisti siriani.

Alcuni di loro, da quando hanno cominciato la loro attività, hanno difeso e sostenuto il modo pacifico di manifestare. Il regime ha continuato ad arrestarli ripetutamente, limitando sempre più la loro attività e bloccando questo movimento pacifico, fino a costringerli a lasciare il Paese. Ora la maggior parte di questi attivisti lavora nei campi profughi in Turchia e in Libano, e alcuni di loro dicono di non voler sentire più palrare di “rivoluzione”, perché “la rivoluzione è morta”.

“Dovreste vedere le persone nei campi profugni come vengono umiliate, sono migliaia. Per non parlare di alcune Ong che ruotano attorno alla Siria e di quello che stanno incolpevolmente causando: scelgono gli attivisti più bravi sul campo e gli offrono asilo politico, borse di studio, stipendi più alti, anche venti volte superiori a quello che prenderebbero all’interno del Paese. In questo modo la Siria viene progressivamente svuotata della gente migliore che potrebbe ricostruire il Paese. Guardate come l’opposizione sta vendendo il Paese al miglior offerente. La gente è stanca. La gente che sta pagando questa rivoluzione è stanca”.

“Quale anniversario e quale festa dobbiamo ricordare? Dove? Fuori dal Paese o dentro al Paese, costretti tra il regime e l’Isis e tra la gente che muore?”

Jaidaa che è stata liberata da poco, dopo sei mesi trascorsi nelle carceri del regime, dice: “Non dobbiamo dimenticare che questa è una Rivoluzione, dobbiamo ribellarci contro quelli che non la chiamano così. Io festeggerò l’anniversario della rivoluzione!”.

In base a quale criterio si può giudicare una rivoluzione dopo soli tre anni? Chi conosce il regime sa che questa rivoluzione continuerà a costare cara al popolo e durerà ancora molto”.

“La rivoluzione non è un angelo: ci sono stati molti errori e ora i siriani stanno imparando che devono occuparsi di se stessi, abbandonando la speranza di essere sostenuti dal mondo, che - in modo consapevole o meno – sta alimentando sempre più le fiamme del fuoco siriano. La rivoluzione non è una fazione contro un’altra. La rivoluzione non muore perché è una idea e gli ideali non muoiono mai”.

Sabah di Aleppo dice: “Quale rivoluzione? Condoglianze! Siamo caduti in un gioco mondiale. Vivo nella preferia occidentale di Aleppo. Prima c’era l’Isis che ha ucciso molti di noi, distrutto ogni barlume di attività civile che avevamo costruito dopo la liberazione dal regime. Allora il regime non ci aveva mai bombardato. Ora L’Isis è uscito dalla periferia occidentale della città e il regime ha cominciato a bombardarci. Sono funghi velenosi che vivono uno sull’altro. E sono sempre loro i più forti”.

Juri di Daraa invece sostiene che “bisogna insistere sulle campagne per raggiustare la strada della rivoluzione e ricordare alla gente per quale motivo era uscita a manifestare”.

Sono attivisti che non vanno d’accordo tra loro. Dialogo con il regime? Ci vuole tanto per riuscire a farli dialogare tra loro! Tra chi è per l’anniversario della rivoluzione e chi è contrario. Però su un punto tutti sono d’accordo: non possono tornare indietro e non lo vogliono nemmeno. Tutti loro quando finiscono di litigare, piangono in silenzio, per l’odio che nutrono contro l’uomo seduto a Damasco, che non ha ancora disatteso le sue promesse: sta bruciando il Paese. E trasformerà la Siria in un nuovo Afghanistan, così come aveva predetto.

Alhareth un ragazzo di Deir ez Zor, quando mi ha salutato sul confine turco-sirano, mentre attraversava il fiume in un secchio, mi ha urlato: “Io la chiamo rivoluzione e la voglio festeggiare anche tra i morti. Succede spesso che ascolto molte volte una canzone lunga: la riascolto solamente per una strofa che mi piace”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Persio Flacco (---.---.---.43) 19 marzo 2014 11:09

    Supponiamo pure che non vi sia stata alcuna causa esterna a scatenare il conflitto, nessuna trama ordita da dentro e da fuori il Medio Oriente per destabilizzare la Siria e portarla dove è ora.

    Dimentichiamo le ragioni e i torti, e indossata la veste del pragmatismo ragioniamo su cosa è meglio intraprendere per la popolazione e per il suo futuro.

    Pesiamo la questione capitale (questione capitale per la valutazione di quelli che la sostengono ovviamente): l’espulsione di Assad dal potere, secondo le precondizioni poste dalle opposizioni a Ginevra 2.

    Poniamo questo obiettivo su un piatto della bilancia e sull’altro mettiamo i costi per la popolazione conseguenti alla sua realizzazione. La cacciata di Assad con le armi della rivolta pesa più o meno di altri mesi, o anni, di morti e distruzioni? Cosa interessa di più alla gente di Siria: la scomparsa di Assad o riconquistare la serenità, la pace, la sicurezza, un regime più democratico e tollerante: rispettoso dei diritti fondamentali dei cittadini?

    Nessuno glielo ha chiesto. E questo è un fatto, non una illazione. 

    Anzi, per essere certi che nessuno sia tentato di chiederglielo, i cosiddetti "Amici della Siria" hanno già decretato ciò che è meglio per il popolo siriano designando loro, sostituendosi ad esso come fonte di legittimità, chi debbono essere i suoi "legittimi rappresentanti", rigettando dunque qualunque ipotesi di elezioni o di mediazione con Assad. 

    E’ lo schema, che ormai dovrebbe essere ben noto, già adottato in diversi altri contesti dagli stessi attori internazionali. In Libia, ad esempio, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi.

    Il Regime di Assad invece insiste affinché sia il popolo siriano a scegliere da chi vuole essere governato. E quest’anno dovrebbero svolgersi in Siria le elezioni presidenziali secondo le norme stabilite dalla nuova Costituzione siriana promulgata nel 2012. Assad potrebbe essere cacciato per mezzo di un esercizio democratico del potere, e i siriani, credo per la prima volta, potrebbero assaporare la Democrazia esercitando il diritto di determinare il proprio governo.

    Questo né le opposizioni né gli "Amici della Siria" lo vogliono, dando vita in questo modo al gigantesco paradosso di sedicenti democratici che rifiutano la democrazia, a costo di sottoporre la Siria ad ulteriori distruzioni e lutti, e di asseriti tiranni che invece la difendono per evitare alla Siria altre sofferenze.

    Bisogna essere affetti da una stoltezza patologica per non accorgersi che la bilancia è truccata, che la posta per la partita che si sta giocando non è affatto l’interesse del popolo siriano, è tutt’altro. Oppure bisogna essere dotati di un cinismo e di una doppiezza diabolici per fingere di ignorarlo.

    Gli "Amici della Siria" sanno perfettamente di poter obbligare gli insorti a partecipare alle libere elezioni per il nuovo Presidente siriano, perché senza il loro supporto l’insurrezione avrebbe vita breve; sanno di avere tutti i mezzi a disposizione per obbligare il Regime siriano a garantire la correttezza delle consultazioni, anche ricorrendo al supporto di truppe sotto l’ombrello della legalità internazionale e con l’egida delle Nazioni Unite. 
    Lo sanno, ma fingono di non saperlo: hanno paura che il popolo siriano faccia scelte non compatibili con i loro fini. Anzi, ne sono certi: altrimenti avrebbero già acconsentito allo svolgimento delle elezioni.

    E pur di non lasciare nelle mani del popolo siriano il diritto di scegliere il proprio destino sono pronti a lasciare la Siria, e il suo popolo, nel carnaio che li sta distruggendo.

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