Milano: il diritto di avere una moschea
La promessa di una moschea a Milano era contenuta nel programma elettorale con cui Pisapia vinse le elezioni comunali del 2011. Quella moschea ancora non c’è. Un gruppo di organizzazioni islamiche ha ora riproposto la questione, denunciando l’inerzia dell’amministrazione e chiedendo di passare ai fatti. Ottenendo per ora soltanto il ritorno delle polemiche. Perché di moschea a Milano si parla da anni. Normale, visto che la comunità islamica milanese non è piccola (circa centomila persone, dicono), una vera e propria moschea, a differenza di altre città, ancora non c’è, e le preghiere si svolgono spesso e volentieri per strada, con tutte le conseguenze del caso.
Il Caim (Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, Monza e Brianza) ha colto l’occasione fornita dall’imminente evento dell’Expo 2015 (e del previsto arrivo di sei milioni di visitatori di fede islamica) per rinnovare la richiesta. Ha diffuso un video in cui giovani musulmani e musulmane (tutte rigorosamente velate) chiedono di avere un proprio luogo di culto.
E ha depositato un progetto per costruirlo dove oggi c’è il Palasharp, che già da tempo costituisce un luogo di ritrovo. L’edificio andrebbe demolito e sostituito con una struttura di due piani, una sala di preghiera per tremila persone, ristorante e centro culturale, del costo di dieci milioni. Interamente a carico della comunità islamica.
Comunità che in realtà è a sua volta divisa: il Caim è vicino ai Fratelli Musulmani (organizzazione fondamentalista illegale in numerosi stati a maggioranza islamica), e altre associazioni islamiche italiane ne hanno preso le distanze, mettendo in guardia il Comune. La Lega e Forza Italia sono duramente contrarie. E nella contesa politica non va nemmeno dimenticata l’influenza “culturale” esercitato dalla vicina Svizzera, dove nel 2009 un referendum ha bocciato a larga maggioranza la costruzione di nuovi minareti.
Di mezzo c’è anche la legislazione sull’edilizia di culto. In base a una complessa stratificazione di normative (nazionale, regionale e locale) ogni Comune è chiamato a destinare una parte degli oneri di urbanizzazione secondaria raccolti a “opere relative a chiese ed edifici per servizi religiosi”. Un privilegio incomprensibile: non si tratta di strutture pensate per tutti, come possono esserlo le scuole, gli ospedali o il verde pubblico, ma sono destinata soltanto a una parte della cittadinanza, quella costituita da chi appartiene a una confessione religiosa.
Quando in passato si è sostenuto che il privilegio dovesse essere circoscritto alla Chiesa cattolica e alle confessioni sottoscrittrici di Intesa (e quindi, nel caso specifico, andasse respinta la richiesta dei testimoni di Geova) la Corte Costituzionale ha detto “no”.
I musulmani sono dunque legittimati a edificare luoghi di culto, e anche a partecipare alla ripartizione della torta degli oneri, che su base nazionale è cospicua: circa cento milioni, secondo la stima dell’Uaar, che da anni ha avviato la campagna oneri per monitorare questo discutibilissimo beneficio.
La normativa lombarda, fortemente voluta dalla Lega, limita invece la possibilità di erigere moschee, e proprio per questo motivo è stata recentemente bocciata dal Tar a proposito degli strumenti attuativi introdotti nel Comune di Brescia, che non prevedevano aree di culto per i non cattolici, ed è stato pertanto (e giustamente) ritenuto discriminante. I Comuni sono dunque chiamati a indicare nei Pgt (Piano di governo del terriorio) le aree da adibire a luogo di culto, e anche il Comune di Milano deve quindi adeguarsi. Circostanza su cui fa leva il Caim per ottenere l’agognata moschea.
Su queste basi, è difficile capire come si possa legalmente rifiutare al Caim il diritto di edificare la moschea: non è un caso, dunque, che il Comune di Milano si limiti a traccheggiare. Ma è anche difficile individuare una valida argomentazione contro l’edificazione di moschee, o di qualsiasi altro luogo di culto di qualsiasi altra confessione religiosa. In Francia, dove un secolo fa le chiese sono state nazionalizzate, lo Stato deve oggi farsi carico sia degli operosissimi costi della loro manutenzione (nonostante vengano aperte ormai solo raramente), sia della crescente richiesta delle “nuove” religioni dell’Esagono, islam in testa, che pretendono analogo trattamento.
Sarebbe forse il caso di valutare il riutilizzo delle chiese cattoliche a favore di altri culti. Una strada da perseguire anche in Italia, dove diverse realtà costruite o ristrutturate con fondi pubblici cominciano a loro volta a svuotarsi.
Ci sembra comunque più corretto partire dal presupposto che le comunità di fede sono organizzazioni come tutte le altre, e devono quindi essere trattate allo stesso modo, senza privilegi né discriminazioni, anche ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione. Purché si paghino i relativi costi di costruzione, purché rispettino i regolamenti urbanistici e acustici vigenti, purché non contribuiscono anch’esse a consumare il territorio con ulteriori inutili colate di cemento, purché non creino luoghi dove si incita all’odio o ad altri reati, purché non siano realtà dove si violano diritti umani fondamentali (con particolare riferimento alle donne e agli apostati). Ciò che vale per Confindustria, per Legambiente e per la bocciofila deve valere anche per la Chiesa cattolica o per una comunità islamica, per l’Uaar come per i pastafariani.
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