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Tahrir, Maidan, Caracas, Taksim, Atene, forconi, indignados, Ows…

Prima di entrare nel merito delle vicende di Venezuela e Ucraina, mi sembra opportuno fare una premessa più generale sulle caratteristiche dell’ondata di movimenti che si sta manifestando simultaneamente in molti paesi. Dal 2008 stiamo assistendo ad una generalizzazione della protesta paragonabile a quella del Sessantotto che fu, forse, il primo episodio di contestazione globale e che, sin qui, non ha avuto equivalenti. Dopo il sessantotto sono venute altre ondate di movimenti di protesta, ma in nessun caso si è trattato di ondate generalizzate a livello internazionale.

Ci sono state le rivolte nei paesi dell’Est (Polonia 1971, 1976, 1980, Ungheria, Romania, Germania Est 1989) o in Cina (1989), oppure ripetute “rivolte del cous cous” nei paesi arabi (1978, 1985, 1993), vari movimenti studenteschi o ambientalisti in vari paesi del mondo, ci sono state le rivolte fondamentaliste (Iran 1979, Arabia Saudita 1979, Algeria 1995 ad es.), poi sono venute le rivoluzioni “arancioni” o “Rosa” (Ucraina, Libano ecc.) ma si è trattato sempre di episodi a carattere nazionale o al massimo di aree contigue.

Unica relativa eccezione i movimenti contro le due guerre del Golfo, che si sono espresse in manifestazioni di protesta tanto nei paesi arabi quanto in Europa o negli stessi Usa (nel 1991). Eccezione parziale, tuttavia, sia perché non hanno mai raggiunto il tasso di generalizzazione che fu del Sessantotto, sia per la durata assai breve, sia, infine, per il carattere circoscritto al solo tema della pace.

La maggior parte dei movimenti post-sessantotto hanno avuto un carattere socialmente più “compatto” (gli studenti cinesi, gli operai polacchi, le plebi urbane arabe, ecc.) ed anche dal punto di vista culturale-politico hanno avuto maggiore omogeneità (il fondamentalismo dei paesi islamici, il pacifismo in quelli di Europa ed Usa, la rivendicazione delle libertà civili in Europa dell’est e in Cina).

Oggi siamo in presenza di una ondata internazionale, anche se manca di qualsiasi omogeneità politica e sociale o anche di un elemento catalizzatore come, ad esempio, fu la guerra del Vietnam, le rivolte sono spiccatamente legate ai contesti nazionali e l’ondata è più diluita temporalmente. Movimenti e situazioni profondamente diversi fra loro.

Questo pone un primo problema: si tratta di un fenomeno unitario (pur nella profonda differenza dei contesti nazionali) o della confluenza - più o meno occasionale - di dinamiche del tutto indipendenti l’una dall’altra? Per quanto si tratti di fenomeni politici molto caratterizzati nazionalmente e la cui manifestazione si estende per oltre un lustro, sembra difficile che possa trattarsi di una concomitanza casuale. Peraltro, al di là della simultaneità, essi presentano aspetti ricorrenti che meritano di essere compresi.

Ad esempio il carattere non meramente rivendicativo, ma direttamente politico, che investe spesso la stessa legittimazione del sistema, pur se con diversi gradi di intensità (le rivolte arabe, l’Ucraina e il Venezuela sono casi certamente più radicali e violenti delle proteste di Ows, dei forconi, dell’Onda o degli indignados, così come c’è una scala graduale fra Atene, piazza Taksim, la rivolta di Teheran del 2010, gli scontri del 10 dicembre 2010 e 15 ottobre 2011 a Roma o la protesta No Tav).

È interessante notare come spesso questi movimenti abbiano in comune il ricorso a nuove tecnologie comunicative (internet o gli sms) che fungono da aggregatori al posto delle organizzazioni, ormai ridotte a un ruolo ben più marginale del passato. E questo si intreccia con il minore radicamento delle varie culture politiche, determinando movimenti assai compositi socialmente e politicamente: questi non sono movimenti “puri”.

Mi spiego meglio: i movimenti sociali (più o meno) spontanei, di cui ci occupiamo, si presentano come rivolte urbane caratterizzate da una accentuata eterogeneità sia politica che sociale. In una certa misura, i movimenti di protesta urbana hanno sempre avuto la caratteristica di mettere insieme componenti molto differenziate fra loro, ma, in particolare dalla prima guerra mondiale in poi, hanno assunto via via caratteri di maggiore omogeneità, assicurati tanto dalla presenza di culture politiche diffuse abbastanza coerenti e radicate, quanto dalla connessa presenza di partiti politici di massa.

In qualche modo, i partiti hanno assolto ad una funzione di “disciplinamento” della piazza, selezionando gli attori della protesta e fungendo da aggregatore della domanda politica. Una prima incrinatura venne, appunto, con il Sessantotto, che prese di sorpresa i partiti, diventati apparati burocratici incapaci di svolgere quella funzione di disciplinamento. Ma si trattò di una rottura parziale: in parte perché questa funzione, per quanto in modo precario ed imperfetto, venne svolta dai “gruppi” (che riproducevano in piccolo le dinamiche di tipo partitico), in parte perché pur sempre resisteva un tenace tessuto di culture politiche in buona parte convergenti. È sintomatico che il “Sessantotto” sia stato un ciclo di movimenti più duraturo in quei paesi dove più forte era il reticolo dei gruppi e più persistente e meno diversificato il sottostante di culture politiche (Italia, Francia, Argentina ad esempio).

Nel nostro caso abbiamo invece movimenti che hanno alle spalle un quarto di secolo di “pensiero unico” che ha azzerato – o quasi – la presenza di tutte le culture politiche che non fossero quella neo liberista. Le culture politiche “altre” (da quel che residuava di marxismo ed anarchia, al fondamentalismo islamico, alle nuove forme di nazionalismo, alle ideologie ambientaliste, alle aree semi peroniste, sino ai residui di gruppi neo fascisti o neo nazisti) sono cresciute ai margini e fuori dei canali ufficiali di comunicazione politica. Il tutto in un’epoca nella quale la rete mondiale delle telecomunicazioni registrava una crescita esponenziale senza precedenti, grazie alla Tv, alla telefonia, ad internet ecc.

Ne sono derivate “nicchie” di crescita o sopravvivenza di questo o quel filone di cultura politica, spesso caratterizzati più da una funzione identitaria che da strumento di azione politica. Parallelamente, andava decrescendo la partecipazione politica organizzata, se non nell’esperienza di piccoli gruppi: i partiti politici (sempre più ridotti alla dimensione di comitati elettorali) e le organizzazioni sindacali hanno perso milioni di iscritti in questi anni tanto nell’Europa occidentale che in quella orientale, mentre in molti altri contesti (come gli Usa) non hanno mai avuto dimensioni organizzative di massa oppure sono esistiti solo come partiti unici di regime poi frantumatisi si fronte a guerre o rivolte (Irak, Siria, Egitto, Tunisia, ecc.). La loro funzione aggregativa è stata in gran parte surrogata proprio dal sistema delle telecomunicazioni che ha creato forme diverse a carattere più o meno virtuale, come internet. Sino a che è durata l’“età d’oro” del neo liberismo le culture politiche “altre” sono rimaste ai margini ed impossibilitate ad andare al di là della perpetuazione identitaria interrotta dalla partecipazione a occasionali movimenti di protesta locale. Ma quando è giunto l’urto della crisi, abbastanza naturalmente si sono sviluppate varie forme di rivolta in cui i diversi spezzoni di “culture politiche altre” sono stati rapidamente risucchiate.

E qui conviene fare una precisazione: la crisi ha avuto un evidente carattere economico, che ha prodotto situazioni di impoverimento più o meno relativo che sono alla base di diversi movimenti (da Ows all’Onda, dalla Grecia sino ai casi estremi delle rivolte del cous cous), ma non si è trattato solo di questo: con la crisi (e con le guerre di Irak ed Afghanistan) è andato in pezzi anche il progetto di nuovo ordine mondiale monopolare, che sembrava definitivamente affermatosi dopo la fine dell’Urss e tutte le “linee di faglia” che erano state “congelate” (salvo le ambigue esperienze delle rivoluzioni arancioni o rosa) stanno rivenendo a galla.

È in particolare il caso dell’Ucraina, di cui ci occuperemo, ma in parte è anche la spiegazione dei movimenti nel Mena e, per certi versi, anche della crisi della Ue.

E questo spiega il carattere inevitabilmente composito, eterogeneo, spesso contraddittorio dei movimenti in corso. Molti arricciano il naso di fronte a questi movimenti “impuri”, concentrando l’attenzione su questo o quell’aspetto inquietante: in Libia il ritorno della bandiera “monarchica”, fra i forconi la contiguità alla Lega e la presenza di fascisti in questa o quella città, anche in Ucraina è la conclamata presenza di nazisti ad allarmare, in Grecia ci si interroga sugli anarco insurrezionalisti, eccetera eccetera.

E, su tutti, l’ombra onnipotente di un qualche servizio segreto come la Cia, il Mossad, l’MI5, lo Sdece ecc (curiosamente, mai servizi segreti diversi da quelli occidentali). Praticamente vanno bene (o quasi) solo quei movimenti a coloritura genericamente di sinistra e ortodossamente non violenti come Ows e gli indignados. In realtà, guardare al mondo con queste lenti serve solo a precludersi la comprensione di quel che sta accadendo.

La “purezza rivoluzionaria” che molti esigono è un sogno impossibile nelle condizioni storicamente date. E, le lenti del passato (campo imperialista contro campo antimperialista) - già erano abbondantemente fuorvianti a loro tempo - sono solo dei formidabili diversivi buoni a confondere le idee.

A proposito: sarebbe ora di piantarla con questa lagna per cui rivoluzioni sono solo quelle che ci piacciono e che possono iscriversi a pieno titolo nel solco delle rivoluzioni socialiste e democratiche del novecento, mentre tutte le altre sono solo congiure di servizi segreti. Le rivoluzioni possono anche avere un segno che non ci piace o anche, semplicemente, avere aspetti molto criticabili, ma non per questo cessano di avere una loro spontaneità per essere ridotte a puro complotto. Ci sono due atteggiamenti opposti ed ugualmente sbagliati: quello di chi pensa che le rivoluzioni siano sempre e solo movimenti sociali spontanei, nei quali i servizi segreti non c’entrano o, comunque, sono impotenti e quello di chi pensa che i servizi segreti siano pressochè onnipotenti, in grado di suscitare eruzioni sociali che poi guidano a bacchetta. Mitologie. Entrambe mitologie.

I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse, possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader ecc, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’ esasperazione popolare che non è cosa che si inventi. Può accadere che un tumulto di piazza sia più o meno stimolato da qualche servizio segreto o polizia politica e funga da innesco, ma se sotto non ci sono le polveri da sparo o le polveri non sono abbastanza asciutte, non scoppia niente.

Viceversa, è altrettanto mitologica la visione di un irresistibile moto di popolo che vive solo della spontaneità delle masse, rispetto alla quale ogni tentativo di infiltrazione sarebbe votato all’inevitabile fallimento. Il che significa dire che anche le organizzazioni rivoluzionarie non hanno alcuna capacità di influenza, perché il dato soggettivo sarebbe costituzionalmente impotente. Sciocchezze: nelle rivoluzioni coesistono rabbia popolare spontanea, ruolo soggettivo delle organizzazioni rivoluzionarie, infiltrazioni poliziesche, condizioni ambientali ecc. Ora si tratta semmai di capire di volta in volta quale sia il peso e il ruolo di ciascuno di questi fattori...

 

Foto: Surizar/Flickr

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