• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > Articolo 18: quando è stato abrogato?

Articolo 18: quando è stato abrogato?

L’allarmismo, i toni ridondanti e le forme distorcenti con le quali i mass-media portano, ogni giorno dentro le nostre case gli avvenimenti quotidiani, fanno sì che l’opinione pubblica si faccia un’idea ben poco rispecchiante la realtà: basta una parola, l’ordine morfologico di una frase che possono esser date due notizie dello stesso fatto.

Un caso degno di nota, finora poco approfondito per i profani delle scienze giuridiche, è quello dell’art.18, legge 300/1970, meglio nota come Statuto dei Lavoratori. Fu l’apice raggiunto dalla legislazione a tutela del lavoratore subordinato, al termine di un percorso che dal codice civile del 1942, il quale prevedeva (e tutt’ora prevede) l’osservanza di un periodo di preavviso da parte di lavoratore e datore di lavoro prima dell’interruzione del rapporto di lavoro (sorta dall’esigenza di tutelare l’affidamento della parte non recedente) è passato alla legge 604/1966 che ha introdotto la c.d. tutela obbligatoria,ossia la corresponsione di un’indennità al lavoratore subordinato licenziato illegittimamente.

L’art.18 introduce invece la c.d. tutela reale, la quale prevede la reintegra nel posto di lavoro del lavoratore licenziato illegittimamente, più la corresponsione di una somma pari alla retribuzione globale di fatto relativa al periodo intercorrente tra licenziamento e reintegra. La riforma Fornero ha invece mantenuto la tutela reale piena solo per il c.d. licenziamento discriminatorio, comminato in ragione di convinzioni religiose, politiche, appartennenza a sindacati etc.(art.15,l.300/1970); ha introdotto invece la c.d. tutela reale “debole” in presenza di licenziamento comminato con carenza di requisiti giustificativi a sostegno della giusta causa o del giustificato motivo nella lettera di licenziamento. In tal caso, il risarcimento sarà limitato ad un massimo di 12 mensilità.

La novità maggiore consiste nell’introduzione della tutela obbligatoria forte per i licenziamenti comminati con requisiti non del tutto ingiustificati (ossia quelli risarcibili con somme tra le 12 e le 24 mensilità) e la c.d. tutela economica debole per i licenziamenti formalmente scorretti (risarcibili con somme tra le 6 e le 12 mensilità) o con una delle ultime tre forme di tutela di cui sopra, previa verifica del giudice.

Dal disposto sinteticamente riportato, possiamo dedurre che:
-l’art. 18 non è stato abrogato, ma modificato e la tutela reale è rimasta, seppur in meno casi rispetto alla disciplina previgente;
-la tutela obbligatoria non è il necessario sbocco per un licenziamento non del tutto ingiustificati e formalmente scorretti, difatti l’esame del merito permette di giudicare la fattispecie e sanzionarla secondo il modo più conforme.

Così si è svolto l’esame del mero disposto normativo, l’abc dell’interprete all’atto dell’applicazione della materia. Passiamo ad uno sguardo più panoramico e analitico della disciplina lavoristica riguardante la tutela del lavoratore.

L’art. 18, fin dalla sua creazione, si applica solo alle imprese con più di 15 lavoratori:ciò basta ad escludere dalla tutela reintegratoria gran parte dei lavoratori subordinati, dato che il tessuto economico del Paese è prevalentemente costituito dalle PMI, o piccole e medie imprese. In seconda battuta, non si può non ignorare il fatto che, dagli anni ’80 in poi, si è avuto un processo di germinazione incontrollata di forme di lavoro alternative al contratto di lavoro subordinato, dal part-time ai co.co.pro, per non parlare del job on call, dei contratti di inserimento, delle svariate forme di tirocinii: insomma, di una serie di forme di collaborazione che, cogliendo sfumature nella disciplina della subordinazione, hanno creato una vera e propria “zona grigia” tra il lavoro subordinato così disciplinato dall’art. 2094 del Codice Civile e il lavoro autonomo, ex art.2222 C.C.

Ora è lecita la domanda in titolo: quando è stato abolito l’art.18? Sotto i colpi della riforma Fornero o dal Pacchetto Treu e dal Libro Bianco sulla riforma del mercato del lavoro, sfociato nella Legge Biagi. Sorge, con tutta evidenza, la convinzione che l’opera destrutturante i diritti del lavoratore non ha sprigionato la sua forza dirompente con il governo Monti, bensì è stata dettata dalle conseguenze della Stagflazione e dalla c.d. “terza rivoluzione industriale” (non è blasfemia dire che lo Statuto è stato scritto per un mercato ancora dominato dal secondario, ma è opinione sostenuta da parte della dottrina).

Ulteriore conclusione da evincere è che, in periodi di andamento negativo del ciclo economico, i diritti dei lavoratori subiscono un’atrofizzazione in nome del bilanciamento dei costi di impresa (vedasi svalutazione del costo del lavoro, perseguibile solo con la diminuzione dei lavoratori o dei salari, quando non si ha sovranità sulla moneta). Viceversa, lo Statuto è figlio del boom economico, quando si era vicini alla piena occupazione e gli aumenti salariali erano il costante fine delle continue lotte sindacali. In altre parole, i diritti dei lavoratori hanno un andamento “a fisarmonica”, secondo il momento del ciclo economico nel quale ci si trovi.

Ecco, quindi, che le garanzie dei lavoratori non dipendono da una tutela privilegiaria (ancorchè eticamente giustissima) e limitata a, complessivamente, pochi casi: ricordiamoci che il licenziamento per motivi economici, ex l.223/1991, ancorchè il procedimento sia lungo e macchinoso, aggira in toto la conservazione del posto di lavoro, come se poi la Cassa Integrazione garantisse un sostentamento sicuro e continuo, fino al reperimento di altra occupazione-.

La soluzione? Eccettuate le necessarie riforme fiscali e amministrative per garantire un habitat idoneo per l’esercizio di un’impresa, il mercato del lavoro deve essere depurato da tutte quelle forme di parasubordinazione che il legislatore ha introdotto in nome della c.d. “liberalizzazione” del mercato del lavoro (leggasi: precarizzazione) voluta dall’Europa, la stessa che chiede in contemporanea di tutelare i diritti del lavoratore nel Trattato di Amsterdam e dalla Carta di Nizza. Conseguenziale è l’introduzione del c.d. contratto unico di lavoro, una delle tante promesse del “sinistroide” governo Renzi (che,senza dubbio, si dimostrerà la reincarnazione politica della Thatcher, con buona pace dei diritti dei lavoratori), il quale permetterà di uniformare il trattamento dei lavoratori. Altra utile innovazione è l’introduzione delle c.d. tutele crescenti, a seconda degli anni lavorati, carico di famiglia, età, concetto non sconosciuto alla legislazione lavoristica italiana: gli stessi fungono da criteri per la selezione dei lavoratori nel licenziamento per motivi economici ex l.223/1991.

Le idee non sono originali, fanno chiaramente parte del programma del governo Renzi, non a caso dato che rappresentano un’efficace rimedio al disordine normativo e all’empasse del mercato del lavoro. Pertanto, è da ritenersi inutile focalizzare la disputa sindacati-datori di lavoro su totem come l’art.18 quando vi sono disfunzioni strutturali più o meno vetuste a causa delle quali vi sono squilibri di tutela dal potere del datore sul rapporto di lavoro.

 Foto: Flickr/ Vitor Lima                                                                 

 

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.194) 14 marzo 2014 18:33

    In Svizzera non esiste il vincolo imposto dall’art. 18 e gli stipendi sono in media del 20-30% più alti.

    Esiste anche in Svizzera il divieto al licenziamento discriminatorio, per sesso, idee politiche, religiose, per razza, ma per il resto vale il principio che l’azienda non ha nessun interesse a licenziare un lavoratore valido, preparato e competente.

    In Svizzera hanno solo l’obbligo di un preavviso di licenziamento che varia al variare dell’anzianità del lavoratore.

    Pare che il sistema non abbia prodotto disoccupazione e nemmeno grandi malcontenti, anzi la svizzera stessa ha deciso di limitare i lavoratori extra Svizzera, data l’enorme richiesta di lavoratori che volevano trovare lavoro sul territorio svizzero.

    • Di (---.---.---.150) 14 marzo 2014 20:37

      Grazie per aver arricchito l’articolo con le Sue osservazioni.
      La svizzera ha un circuito economico che,date le sue caratteristiche(quali la presenza di fabbriche farmaceutiche e istituti bancari),difficilmente è andata incontro a fasi negative del ciclo.Difatti,a discapito della crisi,non ha subito contraccolpi nemmeno il mercato del lavoro:purtuttavia,è prevista la possibilità,da parte delle aziende,di utilizzare i lavoratori ad orario ridotto,previo consenso degli stessi e informazione al locale centro per l’impiego;lo Stato si impegna a rifondere un’indennità integrativa fino a 24 mesi.


      Fatta questa analisi,è evidente che si tratta di un istituto simile alla nostra CIG in deroga,ampiamente utilizzata anche qua in Italia!Questo non può che suffragare l’opinione di quanti ritengano che lo Stato debba intervenire ogni qualvolta il lavoratore sia escluso dal mercato mediante sussidi che gli permettano di mantenere una qualità della vita decorosa!Bisogna quindi andare oltre la cassa integrazione,dal momento che l’Italia non è la Svizzera e che l’economia in generale soffre della presenza di questi disoccupati.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità