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Mazen Darwish, ritratto di un uomo coraggioso

(di Yara Badr* per SiriaLibano. Traduzione dall’arabo di Filippo Marranconi).

Mazen Darwish l’ho incontrato per la prima volta il 16 settembre 2009 al caffè Rawda di Damasco. Mi ero accomodata alla tavola di un amico comune, un giornalista, che sedeva con lui.

Quel giorno, il viso stanco e teso, con la quiete di un vulcano sul punto di esplodere, Mazen Darwish (foto) mi ha detto che la sede del “Centro siriano per l’informazione e la libertà d’espressione” [in inglese Syrian Center for Media and Freedom of Expression, SCM, N.d.T.], che aveva fondato e dirigeva, due giorni prima era stato chiuso per la seconda volta.

Durante quell’incontro, Mazen Darwish mi ha parlato dei progetti a cui stava lavorando, in particolare di quello sulla “censura delle libertà culturali in Siria”. Proprio il rapporto sulla censura, a cui ho contribuito, è stato requisito dai servizi di sicurezza dell’aviazione dopo la perquisizione del SCM – appena qualche giorno prima della sua pubblicazione, il giovedì 16 febbraio 2012.

Tra il settembre 2009 e il febbraio 2012 Mazen Darwish, con ferma determinazione, ha rifondato una nuova sede del SCM, ripreso i contatti coi vecchi colleghi e trovato nuovi componenti: per mia fortuna ero una di loro.

Mazen e io ci siamo sposati cinque mesi prima che lo arrestassero. Il suo arresto aveva per scopo la paralisi della sua attività – situazione che dura fino ad oggi- e ha costituito un passo decisivo nella trasformazione della Siria in un’arena di scontro militare e nell’esclusione di ogni pratica pacifica e in difesa dei diritti.

Oggi, dopo i due anni che ha passato in prigione, nove mesi dei quali trascorsi nel “buco della morte” [N.d.T. termine informale impiegato per definire celle speciali costruite sotto terra, a volte usate per l’isolamento totale dei prigionieri, spesso sovraffollate], i quattro anni e cinque mesi trascorsi dal nostro primo incontro ancora non mi sono sufficienti per poter dire di conoscere Mazen Darwish o per poter parlare di lui nel modo denso ed esaustivo che un articolo richiederebbe.

Quest’uomo, che con spirito fermo e con gioia ha cominciato in carcere il suo quarantesimo anno di vita, mi ha insegnato con pazienza e col sorriso a non tollerare gli insulti, e a lavorare ai rapporti con l’oggettività maggiore possibile. Mazen Darwish stima e tiene profondamente in considerazione coloro coi quali lavora, trattandoli sempre con rispetto. Suggerisce loro la necessità di riformulare questo o quel paragrafo, li guida verso gli schemi che aveva in testa fin dal primo momento, per poi passare alla fase seguente di lavoro sul materiale complessivo.

Mazen detesta la vanteria, ma parla con gioia estrema del giorno in cui il SMC ha lavorato con i bambini orfani di Damasco, dei disegni che i bambini hanno fatto di questa giornata, così come del film sul “lavoro minorile” che ha girato con gli alunni di una scuola. E con lo stesso orgoglio parla della formazione che ha tenuto per un gruppo di ragazzi sui mezzi di comunicazione tecnologici relativi all’informazione.

Oggi, più che allora, ripenso alle sue parole. Cresce il loro valore, mentre sono ormai parte del nostro presente.

Nel 2009 Darwish diceva: “oggi non è possibile parlare di concetti come democrazia, trasparenza o pluralismo, senza parlare di libertà d’informazione. L’informazione libera e indipendente è una delle basi per il cambiamento ed è un elemento fondamentale per il lavoro di riforma. Essa non ne è un riflesso, né è un suo semplice risultato”.

Oggi in Siria l’informazione alternativa è diversificata e numerosa; essa è soprattutto stampata e radiofonica. Tuttavia, è necessaria la professionalità di Mazen Darwish per studiare l’impatto reale di tale informazione alternativa, indipendente dallo stato siriano (una parte di essa si basa sul volontariato, mentre un’altra è legata ai finanziamenti di fondazioni europee e americane). È necessaria la sua professionalità, per vedere in che misura essa costituisca realmente uno strumento indipendente e un elemento attivo nel processo di cambiamento iniziato in Siria nel marzo 2011, o per capire se essa sia, invece, solo un riflesso o risultato di tale processo!

Oggi più che mai abbiamo bisogno di una mente come la sua, abile nell’ analizzare i nuovi meccanismi e nel ricercare competenze ed esperienza, capace di verificare le informazioni, valutarle e osservarne gli effetti. Nel SCM fin da subito si è data importanza a ciò che ha detto Darwish al riguardo: 

“L’informazione oggi è una parte fondamentale nella costruzione dell’opinione pubblica. Essa svolge un ruolo al contempo importante e rischioso, poiché influenza direttamente la formazione dell’opinione elettorale. Nel mondo, molti specialisti dei media e della libertà di espressione hanno già richiamato l’attenzione su tale ruolo, sottolineando al contempo la mancanza, all’interno della legislazione internazionale e nel campo dei diritti umani, di un quadro di riferimento e di procedure di controllo condivisi. Tale quadro risulta necessario, se si vuole stabilire il ruolo dell’informazione nei periodi elettorali”.

Il SCM è stato il primo al mondo a stabilire una metodologia specifica nell’osservazione imparziale e oggettiva dell’attività dei siti di informazione. Tale metodologia è stata applicata per la prima volta nel rapporto sull’ “Informazione siriana durante le elezioni legislative di ottobre 2007”.

In seguito essa è stata diffusa in diversi paesi: grazie a formazioni e osservazioni svolte in occasione delle elezioni del parlamento marocchino e giordano; attraverso il monitoraggio delle attività dei “Media siriani durante il periodo del referendum presidenziale del 2007” e il rapporto del 2008 sulla censura e sugli strumenti utilizzati dal governo siriano nella gestione di internet, intitolato “La domesticazione di internet”; attraverso il rapporto edito nel 2009 intitolato “Il divieto di viaggio”, nel quale il Centro ha monitorato il caso di 421 persone siriane vittime del divieto di viaggio.

Nell’articolo intitolato “Anche ai morti è vietato viaggiare” viene raccontato di casi di persone per le quali il governo siriano ha dichiarato il divieto di viaggio anche dopo la loro morte! Tutto questo, mentre a Mazen Darwish, dal 2007, è stato posto tale divieto da due servizi di sicurezza diversi.

Mazen Darwish mi ha detto qualche giorno fa: “Non sono una fondazione per la difesa dei diritti umani!”. Tra me e me, lo osservo con stupore, e non ho più parole. Lui, che ho visto lavorare come cinque persone insieme: solo, dalla lettura della notizia, alla redazione del rapporto e alla revisione dello studio, senza lasciarsi sfuggire nessun dettaglio, e addirittura portando avanti una ricerca sulla formazione e l’istruzione dei ragazzi; lui, che ho visto intristirsi nello stesso modo per l’uccisione di Shukri Abu Borghol, giornalista del quotidiano ufficiale “At-Thawra”, come per quella di Gilles Jacquier a Homs e quella di Mazhar Tayyara, e quella di ogni altra persona impegnata nel lavoro di informazione. Lui, che ha sollecitato, con il SCM, un’inchiesta immediata, trasparente e pubblica, sulle circostanze di morte di tutti costoro, come di altri.

Durante questo periodo di assenza angosciante, da quando nell’agosto 2012 il governo siriano ha annunciato l’intenzione di sottoporre Mazen al giudizio del tribunale militare – un tribunale eccezionale in cui l’accusato non ha diritto di difesa, le udienze sono segrete, e la cui sentenza può arrivare alla pena di morte con esecuzione immediata- e anche in seguito, quando le persone a noi vicine hanno provato a mettermi al corrente delle voci circolanti sulla morte di Mazen sotto tortura, non ho trovato alcun modo per consolare me stessa.

Nessun modo, se non quello di pensare che Mazen credeva fortemente nel fatto che “la parola è un diritto, e la sua difesa un dovere”; nessun modo, se non quello di credere che tutto ciò fosse una sua scelta, una sua convinzione e il significato della sua vita.

Nonostante l’oppressione securitaria, il soffocante assedio esercitato su di lui degli apparati di sicurezza e gli arresti e le minacce subite ripetutamente, Mazen Darwish è riuscito nel 2004 a fondare il SCM un centro per lo sviluppo e il monitoraggio dell’informazione e l’osservazione delle violazioni compiute nei confronti dei lavoratori di questo settore.

Ma, per me e per molti altri, grazie al suo lavoro in Siria, egli ha fatto molto di più: è riuscito a divulgare i propri principi e a renderli proprietà di tutti, e a far sì che molti li adottassero; è riuscito nella diffusione degli strumenti di lavoro, delle applicazioni pratiche e delle strategie concrete per l’attuazione di tali principi. La prova tangibile di ciò è la comparsa, in Siria, del fenomeno del “cittadino giornalista” che, in forma molteplice e differenziata, dal marzo 2011 a oggi, pratica la propria cittadinanza per la difesa del diritto di parola e nel sacrificio della sua difesa.

In tal modo ho provato a lottare contro l’immagine di Mazen sotto tortura e contro l’idea di una morte vicina: mi dicevo continuamente che Mazen era un’idea, e le idee non muoiono. Qualche giorno prima di scrivere questo articolo, durante una conversazione somigliante a un litigio, che ora, mentre scrivo, mi sembra essere uno stupendo frammento di realtà rubata alla quotidianità della vita coniugale – realtà che non ci è accessibile, come non lo è per migliaia di siriani, Mazen mi ha detto: “non sono una fondazione per la difesa dei diritti umani, sono un essere umano”. Ma lui non sa che le sue idee in difesa dei diritti e la sua professionalità sono la più grande verità che oggi possiedo.

Una verità che né i servizi di sicurezza siriani né gli estremisti islamici (tafkiruna jihadiuna) sono riusciti a togliermi. Una verità che è per me una profonda sicurezza, e che mi accompagna ogni giorno nella tensione dell’attesa, nelle inquietudini dell’ignoto. Anche perché io non possiedo né la forza di Mazen né la sua fede ferma nel fatto che “non vi sono prigioni grandi abbastanza da poter rinchiudere una parola libera”; non possiedo nemmeno il suo amore per la vita e per gli altri.

Dalla prigione in cui è richiuso, Mazen Darwish ha detto: “Forse il modo in cui si sono messe le cose in Siria oggi è peggiore dei nostri peggiori incubi, ma possiamo rinunciare al diritto di cambiare la nostra realtà? Alle nostre ambizioni legittime di libertà, dignità e cittadinanza? Al nostro dovere di ridurre la diseguaglianza e di portare più giustizia nella nostra società, perché questi slogan sono stati utilizzati in modo ideologico e strumentale da parte di regimi tirannici e autoritari e di movimenti violenti ed estremisti?”.

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*Yara Badr è direttrice del SCM e moglie di Mazen Darwish.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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