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Kunming 3.1, il sabato del terrore in Cina raccontato da un’italiana

È successo sabato primo marzo. Sono appena rientrata a casa quando mi squilla il cellulare. È la mia amica Xiao Li, che mi scrive su Weixin, un’applicazione di messaggistica istantanea molto popolare in Cina: «A Kunming è successa una cosa terribile, dei terroristi hanno ucciso diverse persone in mezzo alla strada, stai attenta! Non andare in giro da sola». Il contenuto mi lascia senza parole… non riesco a capire cosa possa essere successo. Mentre io controllo e ricontrollo il messaggio, sperando di essermi solamente lost in translation, Xiao Li è così impegnata a diffondere la notizia che non mi risponderà più fino alla mattina successiva.

Poco dopo, la telefonata di un altro amico mi conferma che è successo qualcosa di grave: «Stai bene? Dove sei? C’è stato un incidente alla stazione, mi raccomando, resta in casa». Per non allarmarmi Dave resta comunque piuttosto vago, e mi ritrovo così a fare una ricerca su Internet per vederci chiaro.

Sui principali siti di informazione cinesi non trovo nulla. È solo verso mezzanotte e mezza che l’agenzia di stampa nazionale Nuova Cina pubblica un breve articolo a riguardo: verso le nove di sera un gruppo di uomini armati di coltelli ha fatto irruzione nella stazione di Kunming attaccando i passeggeri in partenza e in coda alla biglietteria, causando numerose vittime e feriti. Aggiornamenti più precisi nelle ore successive parleranno di 29 morti e più di 130 feriti, oltre che di una probabile matrice etnica dietro quello che la stampa cinese definisce immediatamente un attacco terroristico

Se la stampa nazionale arriva decisamente in ritardo, su Sinaweibo, il popolarissimo twitter cinese, già da alcune ore circolano fotografie e video dell’accaduto. Sono immagini molto forti che mostrano cadaveri per terra, persone ferite, volti disperati di chi è scampato alla strage ma non riesce a ritrovare un amico o un parente. I pavimenti e le scale della stazione sono coperti di sangue. A distanza di poche ore compaiono anche i primi identikit dei possibili sospetti e le testimonianze di chi, purtroppo, si trovava sul posto. La mattina dopo i media nazionali diranno che il gruppo autore della strage era composto da uomini e donne appartenenti all’etnia uigura, una delle 55 minoranze etniche ufficialmente riconosciute in Cina. Inizialmente si parla di 11 persone, ma il numero scende ad 8 la domenica sera, quando la polizia precisa di essere sulle tracce dei tre presunti attentatori ancora in libertà.

Gli uiguri, di etnia turcofona e religione musulmana, sono storicamente e culturalmente molto legati alle popolazioni dell’Asia centrale. Rappresentano la maggiornaza relativa nello Xinjiang, la regione della Cina nord-occidentale al confine con Kyrgyzstan, Kazakhstan e Mongolia. Le relazioni con il governo di Pechino e i suoi rappresentanti in loco sono particolarmente problematiche, e negli anni recenti sono più volte sfociate in proteste e scontri molto violenti. Fino a pochi mesi fa - quando tre persone di etnia uigura sono state accusate dell’esplosione di un’automobile in piazza Tiananmen a Pechino - gli scontri erano rimasti confinati all’interno dello stesso Xinjiang.

La domenica mattina al mio risveglio trovo il mio account di Weixin pieno di messaggi di amici cinesi che mi consigliano di stare in casa e, nei prossimi giorni, di evitare posti affollati, perché alcuni degli attentatori sarebbero ancora in libertà. Mi chiedo come potrei fare, dato che vivo in pieno centro in una città di sei milioni di abitanti… e alla fine, poiché a casa da sola non mi sento particolarmente sicura, decido di uscire comunque, in bicicletta.

Nel frattempo sui social network cinesi fotografie e video circolano molto rapidamente. Gli utenti fanno riferimento all’attentato alla stazione di Kunming chiamandolo semplicemente “3.1”, “primo marzo”. I contenuti più cruenti vengono prontamente rimossi dalle autorità, ma fanno comunque in tempo a fare il giro di mezza Cina. Insieme ad immagini e link una valanga di commenti: chi è sotto shock, chi si sfoga con frasi razziste, chi invita a smettere di diffondere immagini violente, per evitare di diffondere il panico tra la popolazione, e anche chi riflette su come sia potuto succedere, cosa abbia spinto gli attentatori ad agire con una tale furia indiscriminata.

Molte analisi hanno evidenziano come un probabile obiettivo degli attentatori potesse essere quello di destabilizzare l’opinione pubblica e attirare l’attenzione mediatica internazionale. Per la Cina questo è un momento molto delicato: a Pechino stanno infatti per iniziare i lavori della “Conferenza Consultiva del Popolo” e del “Congresso Nazionale del Popolo”, due assemblee paragonabili ai nostri organi legislativi.

La notizia coglie noi residenti stranieri assolutamente impreparati. Di italiani a Kunming ce ne sono pochi, forse una ventina; ci chiamiamo al telefono, scambiandoci informazioni, perplessità, cercando di capire cosa fare. Il fatto che gli appartenenti all’etnia uigura abbiano tratti somatici molto diversi dai cinesi “han” (l’etnia maggioritaria a cui appartiene più del 90% della popolazione della Cina) e per certi versi davvero simili ai nostri, di certo non aiuta. In cima alla lista delle nostre preoccupazioni c’è, infatti, quella di reazioni esagerate o di vere e proprie rappresaglie. Il consolato italiano di Chongqing fa un ottimo lavoro per aggiornarci sulla situazione e rassicurarci, ma la verità è che nessuno di noi riesce a spiegarsi bene cosa sia successo, e perché.

Kunming è una città cinese di seconda fascia, capoluogo della provincia dello Yunnan, situata all’estremo sud-ovest della Cina, al confine con Birmania, Laos e Vietnam. Pur rappresentando un importante centro per commercio e trasporti verso il sud-est asiatico, e nonostante il rapido sviluppo e l’espansione dell’ultimo decennio, resta una città abbastanza arretrata e isolata rispetto alle metropoli della costa orientale, a più di tre ore di aereo di distanza. Come recita un detto cinese, nello Yunnan “le montagne sono alte e l’imperatore è lontano”. La strage di sabato scorso alla stazione, invece, ha catapultato questa città sulle prime pagine della stampa nazionale e internazionale.

Ad oggi, le autorità hanno ufficialmente attribuito la responsabilità dell’accaduto a 6 uomini e 2 donne di etnia uigura e diffuso il nome del leader del gruppo: Abdurehim Kurban. Non è stato invece specificato se quest’ultimo si trovi in custodia o se fosse tra i quattro assalitori freddati dalla polizia al momento dell’attentato. Social network, televisioni e giornali hanno diffuso fotografie di una bandiera, ritrovata quella sera nei pressi della stazione, recante scritte in arabo e il simbolo del “Turkestan orientale”, ovvero il nome usato per definire la regione dello Xinjiang da quelle frangie indipendentiste che ne rivendicano l’autonomia. Tuttavia, risalire alle fonti o controllare la provenienza di determinate immagini è molto difficile. Il World Uyghur Congress (l’associazione internazionale degli uiguri residenti all’estero, con sede a Monaco) ha immediatamente preso le distanze da quanto accaduto a Kunming, esprimendo tuttavia anche una certa perplessità riguardo alla “fretta” con cui le autorità cinesi avrebbero attribuito la responsabilità dell’attentato. Nessuna organizzazione, al momento, ha rivendicato la strage.

Secondo le più recenti analisi, pare che lo Yunnan non fosse il vero e proprio obiettivo dell’attacco. Gli attentatori, in fuga dalle proprie terre di origine per via dell’escalation di disordini e scontri, impossibilitati sia a varcare i confini nazionali che a stabilirsi in altre regioni della Cina, a causa della mancanza di documenti, si sarebbero ritrovati a Kunming e avrebbero agito “per disperazione”. Il basso livello di allerta nella città e la poca severità nei controlli di sicurezza alla stazione hanno probabilmente influito nell’individuazione dell’obiettivo.

La Cina è generalmente considerata un paese abbastanza sicuro nel quale vivere e viaggiare. Tuttavia quanto successo il primo marzo mostra che, sotto il velo della “grande armonia sociale” celebrata e perseguita dalle autorità politiche, si nasconde un’instabilità di fondo. Conflitti etnici e disuguaglianze sociali si sono inaspriti negli ultimi anni. Certe tematiche ricevono pochissimo spazio mediatico, e raramente trovano una valvola di sfogo, tantomeno una soluzione. Ampie fasce di popolazione sono rimaste escluse dai benefici dello sviluppo economico e del “miracolo cinese”, relegate in una posizione economica, sociale e culturale sempre più disagiata, mentre la classe media continua a prosperare ed arricchirsi. 

Qualcuno ha interpretato quanto accaduto alla stazione di Kunming come una prova evidente dell’instabilità di questo paese. Ma per tanti amici e colleghi cinesi la prospettiva è molto diversa: l’attentato alla stazione è stata di certo una tragedia, una strage perpetrata senza scrupoli a danno di comuni cittadini; ma la polizia ha fatto il proprio dovere, riportando l’ordine e catturando i sospetti nel giro di poche ore.

Quando un paio di giorni fa ho confessato di essere ancora un po’ spaventata, mi sono sentita rispondere che non dovevo preoccuparmi: anche io avrei dovuto avere fiducia nel governo e nella sua capacità di riportare la calma, di “risolvere il caso”. Certamente quanto accaduto ha seminato il terrore tra la popolazione, perlomeno nelle ore immediatamente successive all’attentato.

Poi, nei giorni scorsi, la città e i suoi residenti si sono mobilitati, organizzando raccolte fondi, campagne per la donazione del sangue, pasti gratuiti per poliziotti, medici e infermieri in servizio per fronteggiare l’emergenza. Gli abitanti di Kunming nel giro di pochi giorni sono tornati alla propria vita di sempre, i ristoranti specializzati in specialità dello Xinjiang hanno riaperto e le stazioni continuano ad essere affollate, seppur con una maggiore presenza di forze di polizia. È difficile pensare che quanto è successo sabato scorso possa, a lungo termine, aver distorto la percezione che queste persone hanno della propria società e delle istituzioni che la governano.

 

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