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Etnie

EINSTEIN

Leggo di nuovo dottissimi articoli o ascolto accorati commenti al bar che ci spiegano in maniera risoluta quant’è la percentuale di popolazione di «etnia russa» o di «etnia ucraina» nella tal parte della Crimea o di moldavi nella Transnistria. Quando sento parlare di etnie faccio un incubo ricorrente, che voglio raccontarvi.

Sulla base di tali calcoli, infatti, che spesso fanno riferimento a censimenti del 1911 e cartine del 1876, i migliori commentatori sono risolutissimi nel ridisegnare la cartina mondiale spostando i carrarmatini rossi o blu come a Risiko attribuendo, senza tema di smentita, ragioni e torti. A scelta in passato gli stessi ragionamenti potevano concernere l’«etnia serba» o kosovara, quella curda o sciita, gli hutu o i maya, gli zulu, i mapuche, i berberi e son sicuro che tutti siate coscienti che un’etnia italiana e una jugoslava sia siano contese a lungo, con equivalenti argomenti, i nostri sacri confini orientali finendo per farseli spartire.

Tutte le presunte etnie sono descritte come se sfogliassimo un atlante etnografico pre-moderno copincollato su Wikipedia, inclusi barbe e baffi, e solo qualche vecchio inviato in pensione è in grado di apportare qualche elemento di complessità che, inevitabilmente, ridicolizza l’idea che la gente si divida su basi etniche.

Guardando alla tua vita con il prisma di tali segmentazioni mentali del mondo potresti perfino scoprire di aver fatto tanti anni fa un matrimonio interetnico, ovviamente malvisto dalla tua gente (mogli e buoi…), ed avere un irrisolvibile conflitto razziale nel soggiorno di casa tua. Ovviamente molta gente è convinta che sia davvero così ed è disposta a dar la vita per far passare un confine giusto tra il divano e il televisore. Fatto sta che più sei lontano dal cono di luce mediatico più il posto dove vivi, le scelte che fai, il cibo che mangi, le cose che ti piacciono, il partito che voti, rientrano nella categoria etnico o tribale. Il cous-cous è etnico, l’hamburger no. Chissà la parmigiana…

A pensar bene nessuno parla mai di «etnia californiana» (come le prugne) e neanche di etnia tedesca o gringa. Tutti poi si guardano bene dal parlare di «etnia israeliana» e non credo sia perché questa non esiste, come non esistono tutte le altre, e solo i più dotti si lanciano in differenze tra ashkenaziti e sefarditi avventurandosi su terreni minatissimi. Capisci al volo che usano «etnia» solo perché hanno subodorato che «razza» (vivaddio) è fuori moda e il suffisso -fono (russofono, francofono) come alternativa in riferimento alla favella, pensano non sia comprensibile. Anche se a qualche bretone e a qualche corso piacerebbe essere etnia, siamo indotti a pensare che non esista un’etnia francese dalla quale distinguersi. Questo dettaglio, lungi da me complicare il discorso, restituisce all’uso corrente di etnia un significato di arretratezza e perifericità rispetto alle culture dominanti. Appartieni ad un’etnia se vivi in un posto remoto rispetto a chi parla e che chi lo descrive presume arretrato (l’Iraq era l’angolo più buio della storia per il noto etnologo George W Bush). Sei libero da legami tribali o etnici se il tuo popolo è in grado di propagare la propria cultura verso l’esterno. Etnia è sinonimo di debolezza (anche etnia russa?) laddove popolo e nazione sono sinonimo di forza.

Tutto questo è semplicemente «invenzione della tradizione» direbbe Eric Hobsbawm. Bene, in tutti quei casi faccio sempre lo stesso incubo, ormai ricorrente.

Sogno (temo) che un giorno un giornale… di etnia australiana… potrà spiegare, altrettanto dottamente, di come è difficile per l’«etnia toscana» la convivenza nel sud dei propri territori ancestrali con le sacche di «etnia laziale» che varcano il confine soprattutto nella stagione calda e che negli ultimi decenni tendono a divenire stanziali. Oppure scriverà della propensione plurisecolare dei primi (un’etnia votata alle arti per la lungimiranza dei suoi banchieri, scapperà a qualche editorialista citando un vecchio politico che fu sindaco della capitale di quella piccola nazione) ad annettersi la parte nord-occidentale del territorio popolato da millenni dall’«etnia umbra». Oppure immagino che qualcuno citerà articoli sulla naturale propensione alla violenza dell’«etnia calabrese» o infine ci racconterà dei millenari conflitti interetnici emiliano-romagnoli, parlando del dramma irrisolvibile di due popoli per una sola terra.

Ecco, quel giorno spero di essere già morto, magari lavato col fuoco (oh Vesuvio…), ma irriducibilmente morto e non darò loro neanche la soddisfazione di tirargli le lenzuola.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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