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Carcere e Giustizia: l’omicidio di Stato "perfetto"

Nell'estate del 1971, un professore americano di nome Zimbardo condusse un importante esperimento nel seminterrato dell’Università di psicologia di Stanford. Scelse 24 studenti maturi, equilibrati e mai dediti alla violenza: li divise in due gruppi affidandogli il ruolo di secondini e detenuti. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardarli negli occhi, manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l'ordine: dopo qualche giorno si dovette interrompere l’esperimento perché i secondini cominciarono ad utilizzare metodi di tortura nei confronti dei prigionieri.

 
L’esperimento narrato è utile per capire che qualsiasi tipo di Istituzione repressiva (e non solo) ha la capacità di depersonalizzare i carcerieri: si forma un gruppo, unito, che induce una perdita di responsabilità personale, riduce la considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolisce il senso di colpa e inibisce l’espressione di comportamenti distruttivi. 
 
Possiamo quindi dedurre che le vergognose - e ingiustificabili - violenze di alcune guardie penitenziarie nostrane siano dovute dall'Istituzione Carceraria stessa. Si fa bene e si devono assolutamente denunciare i casi di questo tipo di violenza, ma è assolutamente sbagliato nel frattempo non mettere in discussione la necessità dell’attuale sistema penitenziario e anche quello giudiziario: sono due Sistemi in osmosi ed entrambi da riformare completamente. Anche perché se è vero che la guardia penitenziaria rischierebbe di depersonalizzarsi e sfociare nella violenza più inaudita, dall'altro canto è altrettanto vero che il Magistrato, plasmato dal Sistema di potere giudiziario, si trasforma in un “burocrate del male” protetto dalla legge: in parole semplici c’è un processo di disumanizzazione totale e di rafforzamento dell'essenza del Potere stesso.
 
Per questo motivo c’è da ritenere che il giornalismo di inchiesta volto a denunciare le morti in carcere non dovrebbe solo esaurirsi alla sola denuncia: ma deve necessariamente approfondire a 360 gradi l’argomento. Il rischio concreto, e di fatto credo che sia già realtà, è quello di creare indignazione facile solo grazie alle immagini dei detenuti dai volti tumefatti, riempiti di botte dai secondini ed esaurirsi lì. D'altronde anche Grillo, tramite il suo blog, ne ha fatte di denunce e sappiamo che nello stesso tempo ha intrapreso battaglie per opporsi a qualsiasi legge che miri alla carcerazione come estrema ratio; perfino Il Fatto Quotidiano, che ha una visione carcerocentrica della società, tratta spesso casi del genere: ma nello stesso tempo non mettono in discussione tutto ciò e, anzi, si oppongono a qualsiasi indulto, amnistia o una semplice alternativa alle pene. Per non parlare quando si tratta di denunciare la malagiustizia e quindi criticare l'operato della Magistratura: sono i primi difensori di questo Potere. Basterebbe fare un sondaggio tra chi si indigna e si troverebbe conferma a ciò che dico.
 
Limitare la soluzione dell’annoso problema carcerario alla sola condanna dei secondini violenti è inconcludente: è come recidere i rami (quando ci si riesce) che comunque, inesorabilmente, ricresceranno. Personalmente, anche su AgoraVox, sono stato tra i primi a denunciare le morti in carcere quando ancora non era, lasciatemi passare il termine, di "moda".
 
Ritornando alle “immagini shock” dei volti tumefatti dei detenuti, bisogna necessariamente dire che quelle tragiche e ingiuste violenze di Stato sono una minuscola percentuale: la maggior parte delle morti in carcere non hanno “immagini” da poter vendere al pubblico; si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario-giudiziario induce al suicidio. È questo l’omicidio di Stato “perfetto”.
 
Foto: Kate Ter Haar/Flickr

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