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La storia senza fine dei cittadini giapponesi (e non solo) rapiti dalla Corea del Nord

TOKYO - Le persone scompaiono tutti i giorni. C’è chi fugge da casa, chi si allontana senza fare più ritorno e c’è anche chi viene rapito.

 
Le ragioni che portano una persona a rapirne un’altra non sono molte e vanno in genere ricercate nel denaro, con la richiesta di un riscatto, o nel desiderio psicotico che ha come unico e terribile obiettivo la sottomissione di una persona indifesa. Tuttavia, molto raramente, capita che delle persone vengano rapite su espresso ordine di un capo di stato di un’altra nazione, per risolvere dei problemi nelle dinamiche “interne ed esterne” al Paese stesso. Mi riferisco alla Corea del Nord, un paese famoso non soltanto per il terribile regime totalitario, ma anche per una lunga serie di rapimenti “internazionali”, iniziati subito dopo la fine della guerra di Corea (1950-‘53) e terminati probabilmente intorno ai primi anni Ottanta. La lista dei paesi interessati è lunga e non si limita al solo continente asiatico ma, come vedremo in seguito, si estende fino al cuore d’Europa. 

Il caso del Giappone come paese vittima dei rapimenti rimane il più famoso non soltanto per il numero delle persone rapite, ma anche per le testimonianze e le prove raccolte negli anni. Questa è una storia ricca di zone d’ombra, dove l’eco della Guerra Fredda e le menzogne malamente recitate riescono ancor oggi a camuffare la realtà dei fatti.

Tutto sembra essere iniziato l’11 maggio 1963; Takeshi Terakoshi (13 anni) insieme agli zii Shoji (36) e Soto (24) escono in mare con la loro imbarcazione. Il giorno dopo il loro piccolo peschereccio viene trovato a sette chilometri dalla costa, vuoto e con evidenti segni di speronamento sulla fiancata sinistra. Le ricerche dei corpi continuano per un paio di giorni ma il mare - si sa - spesso non concede pace alle sue vittime; i corpi, infatti, potrebbero essere stati divorati dagli squali, oppure trasportati via dalle correnti marine fino a chissà dove. Così le ricerche vengono abbandonate e i tre malcapitati dichiarati dispersi.

Tuttavia, a distanza di ben ventiquattro anni, il 21 gennaio del 1987, una lettera viene recapitata a casa della signora Tomie Terakoshi, madre di Soto e Shoji nonché nonna di Takeshi. La lettera in questione, proveniente dalla Corea del Nord, è stata spedita da una persona che afferma di essere Soto Terakoshi. L’anziana donna non ha dubbi, la lettera è autentica. Il contenuto è semplice ma sconvolgente: Soto precisa di essere andato di sua “spontanea volontà” in Corea del Nord. Di essere in ottima salute e di essersi sposato con una donna del luogo. Anche Takeshi ha messo su famiglia. E Shoji?

Shoji è morto poco dopo l’arrivo in Corea del Nord, forse per un infarto. Forse.

I dubbi legati a queste vicende sono tanti e gli investigatori sono costretti a riaprire il caso. Anche perché, nel frattempo, si sono verificate delle sparizioni analoghe nel resto del Giappone. Tra il 1970 ed il 1983 il Governo giapponese ha accertato almeno 17 casi (che in realtà potrebbero essere molti di più) di cittadini giapponesi rapiti sotto il beneplacito dell’allora “Caro leader” della Corea del Nord, Kim Il Sung.

Per capirne di più sono andato a trovare il signor Nishioka Tsutomu, direttore del National Association for the Rescue of Japanese Kidnapped by North Korea, o NARKN (北朝鮮に拉致された日本人を救出するための全国協議会), associazione no profit fondata nel 1996 con l’unico scopo di far tornare a casa tutti i cittadini giapponesi rapiti nel corso degli anni. 

La stanza dove mi fa accomodare è molto piccola e stracolma di libri; la cosa che mi colpisce di più, entrando, è la mole di documenti scritti in coreano. Mi spiega che tutti gli operatori dell’associazione, compreso lui stesso, devono per ovvi motivi saper parlare anche la lingua coreana. Infatti il signor Nishioka tiene a precisare che “prima ancora che la polizia iniziasse ad interessarsi seriamente ai singoli casi, la NARKN seguiva già le prime piste che portavano in Nord Corea. Le molte interrogazioni parlamentari che si sono succedute sono state fatte tutte in seguito alle prove raccolte dall’associazione a partire dal 1996”. 

 

Secondo lei è credibile il fatto che il Governo giapponese e la stessa polizia fossero all’oscuro del coinvolgimento dei nord-coreani in questa lunga serie di sequestri?

No, il Governo giapponese sapeva ma ha taciuto. Sapeva dei rapimenti almeno dal 1978. Esistono prove in merito. Un ex ufficiale (che ha preferito rimanere anonimo) ha dichiarato di aver iniziato a lavorare a questi casi dal luglio di quell’anno. Tre giovani coppie, scomparse tra luglio ed agosto, sono state rapite tutte in prossimita di zone costiere facilmente accessibili da piccole imbarcazioni. In quel periodo si sono raccolte molte prove ed indizi che lasciavano presuppore il coinvolgimento dei nord-coreani; intercettazioni radio di messaggi in codice provenienti da una nave “spia”, testimonianze di amici e familiari che escludevano categoricamente l’allontanamento volontario e infine, l’anno precedente, l’arresto di un cittadino coreano residente in Giappone: questa persona affermava di aver consegnato ad agenti nord-coreani un giovane cittadino giapponese, Yutaka Kume, descrivendo nei particolari la metodologia adottata in questo e in altri rapimenti. La “consegna” era avvenuta in una spiaggia nella prefettura di Ishikawa. Questa testimonianza non è mai stata presa in considerazione dalle autorità. 

Deve ammettere comunque che si tratta di prove circostanziali. Niente di concreto. E poi, perché rapire dei semplici cittadini?

Il tempo ha dato ragione al team che lavorava sui casi. Infatti una delle giovani coppie rapite nell’estate del 1978 (Kaoru e Yukiko Hasuike) ha fatto ritorno in Giappone insieme ad altre tre vittime, nel 2002. Vede, questo ex ufficiale era tenuto a riferire tutti i risultati al ministero degli interni; più le indagini andavano avanti, più i malumori crescevano. In quel periodo il Giappone utilizzava una politica estera molto discutibile: starsene buoni e non litigare con i vicini di casa. Adesso la situazione è molto cambiata, ma di fatto all’epoca le indagini sono state letteralmente “bloccate”. I “semplici cittadini”, in realtà, erano per la maggior parte persone utili perché professionisti in diversi campi come l’insegnamento, l’ingegneria e l’agricoltura. Tutti loro servivano al Governo di Pyongyang. Venivano selezionati in base a determinate caratteristiche, seguiti per giorni e, quando se ne presentava l’occasione, narcotizzati e rapiti.

Lo stesso Governo giapponese ha dovuto comunque ammettere la gravità del problema. In che occasione e qual è stato l’impatto sui media?

È stato un percorso molto lungo. Potremmo dire che ha contribuito molto il lavoro fatto dall’associazione dei familiari delle vittime (AFVKN, Ndr) e la stessa NARKN insieme ad una serie di testimonianze e confessioni di ex agenti dei servizi segreti nord coreani. Un esempio fra tutti potrebbe essere la confessione di Kim Hyuan Hui, ex agente nonché terrorista responsabile dell’attentato al volo 858 della Korean Air (115 vittime) nel 1987. È lei stessa ad ammettere di aver imparato la lingua giapponese da Taguchi Yaeko, rapita nel 1978; riconosce il suo viso all’interno delle tante foto mostratele dalla polizia. In questo caso il Governo ha dovuto ammettere pubblicamente la gravità del problema ed i media hanno giocato un ruolo importante, anche se a volte in maniera molto crudele. Parecchie testate, infatti, scrissero che la Taguchi non era una vittima ma una “collaborazionista”. Ridicolo. 

Adesso la situazione sembra molto cambiata e qualche risultato è stato anche ottenuto. Mi riferisco al ritorno, nel 2002, di cinque persone scomparse. 

Sì, si è trattato di un grande successo per il Governo presieduto da Junichiro Koizumi, ma è stato solo un “contentino” se ci rapportiamo al numero delle persone scomparse. L’ex Primo Ministro Koizumi se ne è lavato le mani subito dopo aver vinto le elezioni, affermando che, “prove alla mano”, gli altri cittadini giapponesi rapiti erano deceduti. Sciocchezze. Tutte le prove fornite dal Governo di Pyonyang, come certificati di morte o resti cremati, si sono rivelati dei falsi malamente costruiti; i certificati di morte utilizzati erano stati manomessi cancellando con una semplice gomma il nome originale del defunto ed aggiungendo quello per esempio di Yokota Megumi (13 anni) scomparsa nel 1977. O ancora, le fantasiose cause del decesso come morte per asfissia nella propria abitazione quando il gas nelle case nord-coreane non era ancora presente, oppure i tanti incidenti automobilistici in una Corea del Nord, ancor oggi, quasi priva di automobili. La prova finale della malafede dei nord-coreani è arrivata quando la scientifica della polizia giapponese ha analizzato i presunti resti di Yokota Megumi fatti pervenire a Tokyo. L’esame rivelò infatti la presenza di DNA riconducibili a più donne ma non a Megumi. I dubbi sono più che leciti, a questo punto...

Potrebbe parlarmi delle “presunte vittime” europee e delle famose testimoni libanesi? 

Una delle poche testimonianze che abbiamo sulla presenza di cittadini europei in Corea del Nord tra il 1977 ed il 1978 si basa su un’intervista (preceduta da un’inchiesta del Governo) rilasciata ad un giornale libanese, El Nahar, il 9 novembre del 1979, da due ragazze, Siham Shraidhi e Haifa Skaff, che sono riuscite a scappare da un campo di addestramento. Le due raccontano che un uomo (un cittadino libanese in seguito arrestato con l’accusa di traffico di esseri umani) aveva proposto loro un lavoro ben remunerato in un hotel giapponese. Le ragazze accettarono e dopo aver preparato il passaporto ricevettero da quest’uomo i biglietti per il viaggio verso Tokyo. Arrivate in una non meglio specificata capitale dell’Est Europa, il loro viaggio iniziò a seguire una rotta molto particolare con innumerevoli scali fino a quando, arrivate a Pyongyang, i loro passaporti vennero sequestrati dalle autorità locali. Dopo un breve interrogatorio furono portate in un campo di addestramento per “spie perfette” (durissima preparazione fisica, letture e lezioni sul pensiero di Kim il Sung e pratica di intercettazioni). Le due aggiungono anche che nello stesso luogo hanno conosciuto altre 28 giovani donne provenienti da molti paesi tra cui, due cittadine olandesi, tre francesi e tre italiane. Noi siamo venuti in possesso di quest’intervista molti anni dopo; abbiamo comunicato tutto ciò che sapevamo (per quanto riguarda l’Italia) il 30 ottobre del 2006 a New York, presso le Nazioni Unite, a due rappresentanti italiani. Ci hanno semplicemente risposto di essere molto interessati al caso e che avrebbero comunicato subito a Roma quanto loro riferito. Per quanto riguarda in particolare le tre donne francesi, abbiamo anche la testimonianza di Choi Eun-hee (un’attrice sud coreana rapita nel 1978 che lavorava nei film di propaganda voluti da Kim Jong Il) che afferma di aver più volte sentito parlare di una donna francese da una guardia del campo. In questo caso, il Governo francese sembra che si sia attivato per avviare delle verifiche ufficiali. 

***

Saluto il signor Nishioka e lascio l’associazione con la netta sensazione di doverci ritornare da lì a breve. Questa storia non è ancora conclusa. Le prove e le testimonianze possono essere anche un’arma a doppio taglio, quando si parla di speranza. La speranza di riabbracciare il proprio figlio, una sorella o la propria madre. Seguire delle traccie anche labili è sicuramente molto difficile. Difficile, ma non impossibile. Il lavoro svolto dalla NARKN è stato faticoso, lungo e per niente conclusivo. Le commissioni d’inchiesta volute dagli ultimi governi si sono rivelate molto utili anche perché hanno preteso da Pyongyang delle risposte che, sfortunatamente, il più delle volte si sono rivelate delle menzogne. Menzogne che lungo cinquant’anni di storia negata ed indifferenza generale, hanno soltanto scavato dei profondi epitaffi su delle lapidi prive date. 

Concludo con le parole del signor Iizuka Shigeo (fratello di Taguchi Yaeko): “Noi parenti delle vittime invecchiamo. Io mi sforzo di non piangere quando racconto di sua madre a mio nipote. Un giorno lei tornerà ed io sarò qui ad aspettarla perché sono certo che lei sia lì, da qualche parte in Nord Corea, pronta a tornare a casa”.

 

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