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Il mio amico don Bruno

Provo gioia e, non si direbbe, anche un filo d’emozione nel tracciare queste righe, informali ma nello stesso tempo riflettenti, così almeno spero abbiano a rivelarsi; un rosario di pensieri e sentimenti d’intensa e genuina umanità.

A prescindere dal ruolo e dall’altissima carica rivestiti dal personaggio di cui mi accingo a dire, l’intenzione è di rivolgermi, innanzitutto, a una persona, un compaesano e, giustappunto, un amico. Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Bruno Musarò, Arcivescovo Titolare di Abari, antica città romana della provincia dell’Africa originariamente denominata Bizagena (corrispondente all’odierna Tunisia) e Nunzio Apostolico a Cuba, è nato nel 1948 ad Andrano, piccola località del basso Salento.

Prima di proseguire nelle relative note biografiche, mi sembra, però, opportuno inquadrarne la figura, a modo e parer mio, nel guscio del suo nido, della sua famiglia. Bruno è uno dei sei figli, tre maschi e tre femmine, messi al mondo dai coniugi Musarò, Menotti e Viola, detta Violetta: una prole numerosa, dunque, anche se in sintonia con le consuetudini delle generazioni andate circa la composizione media dei nuclei. Prole, a ogni modo, puntualmente riuscita, grazie alla forza d'animo, all' impegno e ai sacrifici congiunti di genitori e ragazzi, ad avviarsi e a procedere, con ottimi risultati, su percorsi positivi, in una pluralità e diversità di scelte e inclinazioni.

Difatti, con l’annotazione indicativa che papà Menotti, in vita, è stato esercente di una piccola merceria, barbiere, collaboratore scolastico e contadino, mentre mamma Violetta, tuttora esistente, si è occupata delle faccende domestiche e di star dietro a marito e figli, mette conto di rimarcare i seguenti esiti e sbocchi post studio conquistati dalla squadra dei giovani Musarò: un sacerdote, un avvocato, un architetto, un medico e due insegnanti.

Dopo l'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1971, don Bruno conseguì l’ammissione alla Pontifica Accademia Ecclesiastica di Piazza della Minerva a Roma, istituzione che forma e da cui provengono i diplomatici di carriera della Santa Sede. Terminato quel tirocinio, seguirono lunghi periodi ed esperienze da addetto e/o consigliere presso varie Nunziature. Poi, nel 1995, maturò il momento magico del salto di qualità, con la consacrazione vescovile, in San Pietro per opera e dalle mani di Papa Wojtyla, con il titolo, personale, di arcivescovo di Abari, elezione accompagnata dall’investitura a Nunzio Apostolico in Panama.

A tale iniziale destinazione, seguirono poi analoghi incarichi, nell'ordine, in Madagascar, Guatemala, Perù e Cuba, paese, quest’ultimo, dove è insediato e presta servizio adesso. Nella capitale L’Avana, ha accolto, nel 2012, il Papa dell’epoca, Benedetto XVI, ora Pontefice emerito, nella fase finale del suo viaggio pastorale nel Messico e a Cuba. Come particolare rimastogli maggiormente nella mente e non solo lì, don Bruno mi ha riferito della evidente stanchezza, se non spossatezza, che nel riceverlo all’aeroporto in una giornata dall’altissima temperatura, notò sul volto e nel fisico del Santo Padre, aggiungendo che, secondo fonti particolarmente vicine al Santo padre, sarebbe stato in quella circostanza che, nell’animo di Ratzinger, iniziò a maturare il proposito di rassegnare le dimissioni, poi concretamente date nel febbraio 2014.

Don Bruno è più giovane di me, essendo nato sette anni dopo, come mia sorella Teresa, e perciò, da ragazzini, non abbiamo avuto occasione di conoscerci e frequentarci, pur abitando in due paesini confinanti, la sua Andrano e la mia Marittima. In effetti, ho sentito parlare, per la prima volta, di lui, quando è diventato vescovo, a Roma dove, allora, lavoravo e risiedevo. Appresa la notizia dell'evento, mi recai in Vaticano per incontrarlo di persona e congratularmi, fui da lui accolto con grande cordialità, da conterranei, quasi fossimo stati da sempre amici, nel pensionato di Santa Marta, sì proprio quella che oggi è anche la residenza di Papa Francesco, dove don Bruno si trovava temporaneamente alloggiato.

Lo ricordo ancora adesso, mi fece festa grande e m’invitò subito a intervenire, la domenica successiva, alla celebrazione della Messa da vescovo, in una parrocchia della periferia romana, cui era, evidentemente, legato, uscita pubblica d’esordio nelle vesti di alto prelato, prima di intraprendere il viaggio verso il paese nativo di Andrano. Lì, non ero presente e, però, mi giunse l’eco di un evento eccezionale che coinvolse l'intera comunità concittadina e nugoli di amici e conoscenti dei paesi vicini: ciò, giacché don Bruno, pur trovandosi a lungo a vivere, analogamente a chi scrive, lontano dal luogo di nascita, aveva sempre mantenuto, come fa del resto tuttora, i contatti con le proprie radici: in primis, ovviamente, rispetto ai famigliari e, insieme e sullo stesso piano, in termini ideali e devozionali, rispetto alla “figura” che domina particolarmente sulla popolazione di Andrano, la divina protettrice Madonna delle Grazie.

Al punto che, don Bruno, non è mai mancato, tranne che in rarissimi casi di assoluta impossibilità o d’impedimenti ineludibili, ai festeggiamenti patronali relativi, che si svolgono annualmente, di solito, fra gli ultimi giorni di luglio e l’inizio di agosto. Così che, fa sempre un effetto piacevole scorgere la sua figura sorridente, affabile e cordiale nei paramenti solenni correlati al suo rango: nel caso specifico, nessun contrasto, anzi perfetta simbiosi, fra abito e tratto. Don Bruno, insomma, racchiude insieme la figura di Arcivescovo e alto diplomatico plenipotenziario del Santo Padre e quella di uomo ricco di semplicità e di umanità, fedele alle sue origini.

Quando ritorna a casa e si trattiene fra i compaesani e i salentini in genere, il forbito ed eclettico poliglotta, ama parlare ed esprimersi con frasi e discorsi non tanto in italiano, quanto in dialetto andranese. In tal modo, invero, si comportò già all’atto del nostro primo incontro in Vaticano, nel riferirmi dei numerosi viaggi di andata e ritorno a piedi, da bambino, lungo la via vecchia da Andrano a Marittima, puntualmente ogni prima di domenica di marzo in occasione della fiera della Madonna di Costantinopoli; e, ancora, delle puntate, quand’era ragazzo e giovanissimo, in direzione dell’insenatura Acquaviva, per prendervi qualche bagno, in alternativa e a integrazione dei tuffi compiuti in Zona Botte o Grotta Verde della Marina di Andrano.

Dopo il 1995, ho rivisto e incontrato don Bruno sistematicamente in ogni stagione estiva, o a casa sua o nella mia “Pastorizza” o in mezzo alla festa patronale della Madonna delle Grazie. In un paio d’occasioni, inoltre, all’ Acquaviva e, in una circostanza, addirittura, in barca: l’ho notato mentre era intento a nuotare all'imboccatura, per l’appunto, del suddetto seno, insieme con un suo collaboratore di nunziatura, in un attimo vele amaranto ammainate, scaletta fissata alla fiancata del battello e don Bruno e l'amico su a bordo a farmi compagnia per una piacevole veleggiata, esperienza da loro molto gradita in quanto novità, sino alla già richiamata Grotta Verde.

Qualche tempo fa, nell’ambito di un racconto, mi è capitato di far cenno ad un personaggio passato della comunità nativa di don Bruno, la muta di Andrano, figura da lui ben conosciuta, al che il Monsignore, letto il mio lavoro, mi ha scritto di aver provato dentro una profonda commozione. Anche nei giorni scorsi, durante l’ultimo suo breve periodo di vacanza, ho potuto rivedere don Bruno ad Andrano, nell’abitazione della sorella maggiore, ivi presente, seduta su una poltrona, anche mamma Violetta.

Piccolo particolare conclusivo: proprio nell'atto di congedarmi da lui, mi è stato dato di cogliere una minuscola ma singolare chicca della sua innata e conservata semplicità umana, sotto forma di una frase rivolta ad una seconda sorella, residente in una non distante cittadina del Salento, la quale era andata a trovarlo: ”Senti, sorella, per il prossimo lunedì, tieniti libera e ritorna qui, prima che io parta per Cuba, fermati anche per il pranzo e “cusì ne manciamu mparu nu picca ‘e pasta” ( così, ci mangiamo insieme un po’ di pasta asciutta). Un’espressione, nella rigorosa lingua dei padri, che, almeno a chi ha i capelli bianchi, richiama alla mente anche la presenza, sulle tavole contadine, del classico grande piatto di minestra unico per tutti i commensali. 

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