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Traiettorie sociologiche: Il popolo di argilla, la vita ai margini dei Twa in Rwanda

di Marco Meloni

L’argilla è una materia nobile. Può essere plasmata, adattata alle proprie esigenze, adoperata in ambiti e campi molto diversi. Può divenire anfora per l’acqua, oggetto di arredo, monile per l’abbellimento personale.
 
L’argilla è però anche fragile, e si rompe e si spezza con facilità, perdendo così spesso identità e funzione. Alessandro Manzoni, ad esempio, descrive Don Abbondio come un vaso di terracotta fra vasi di ferro, per indicare l’incapacità dell’uomo a manifestare una volontà e forza pari a chi si vuole imporre su di lui (Manzoni, 1966, p. 23). In questo caso, l’argilla è incapace di sopravvivere laddove la prepotenza si afferma nei rapporti interpersonali, e deve cercare un suo equilibrio negli spazi di sopravvivenza lasciati liberi dal potere.
 
I Batwa, o semplicemente Twa, sono una delle popolazioni più antiche dell’Africa dei Grandi Laghi, e sono da tempo definiti “il popolo di argilla”. Il nome, seppur utilizzato in senso dispregiativo dai popoli vicini, come gli Hutu e i Tutsi, racchiude in sé tutte le valenze, positive e negative, appena evidenziate. La nobiltà e tradizione di un popolo che non è stato toccato o quasi dalla follia del genocidio e del conflitto etnico fra “false” etnie (Amselle, M’bokolo, 2008), ma anche l’assoluta incapacità di autodirezione, che impone un adattamento continuo e un difficile equilibrio sociale ed economico con i gruppi più forti all’interno del Rwanda.
L’origine del nome, anche se soggetta a diverse interpretazioni, evidenzia subito la netta separazione esistente fra questo gruppo e gli altri. Distanza fisica, ma soprattutto di tradizioni e memorie, che spinge all’emarginazione e alla diffidenza nei loro confronti. Antonio De Carolis sostiene che il suffisso –twa sarebbe caratteristico delle popolazioni pigmee africane, e che sarebbe quindi traducibile con un semplice piccolo o basso (De Carolis, 1978); Johannes Van der Burgt, invece, fa risalire l’origine al termine ku-twa, respinto, emarginato (Van der Burgt, 1903).
 
In entrambi i casi, emerge con evidenza l’elemento di alterità, la diversità rispetto alle altre realtà del Rwanda e, in generale, della Regione dei Grandi Laghi. Una distanza non solo epistemologica, ma anche fisica, territoriale e sociale. I Twa non sono ben accetti, e subiscono da molti anni continue persecuzioni e violenze. Il loro numero non è quantificabile con precisione, poiché non possono essere iscritti all’anagrafe, o ottenere alcun beneficio dallo Stato (Lewis, 2000). Non possono contrarre matrimoni con persone di altre “etnie”, e non possono avere attività commerciali o produttive di rilievo. Vivono così ai margini delle foreste, coltivando terreni poco produttivi e, soprattutto, lavorando e vendendo l’argilla, che diviene il loro primo mezzo di sostentamento. José Kagabo e Vincent Mudandagizi sostengono che:
 
I Twa erano uomini dotati di una umanità spesso difficile da distinguere dalla bestialità: voraci al punto di nutrirsi di qualsiasi rifiuto, come degli animali, in preda ad una sessualità non controllata da alcun interdetto di origine culturale, incapaci di onta o di pudore, stupidi e adatti soltanto i compiti più ributtanti, disprezzati e temuti al tempo stesso, facilmente riconoscibili dai loro atteggiamenti e dal loro aspetto fisico (Kagabo, Mudandagizi, 1974, p. 76).
 
Alessandro Triulzi afferma che quando un popolo diviene, nell’immaginario collettivo, vittima, nessun suo atto futuro sarà più realmente condannabile, poiché attutito da questa immagine diffusa (Triulzi, 2005). Questo è accaduto al Belgio, vittima della Germania in entrambi i conflitti mondiali, e per questo incapace di essere un feroce esempio di colonialismo (Scaglione, 2003), questo accade oggi in Rwanda, dove il governo Tutsi di Kagame, il governo dei sopravvissuti all’orrore del 1994, non può essere percepito come in grado di attaccare la Repubblica Democratica del Congo, o di continuare a perpetuare violenze nei confronti dei Twa. In un contesto che emargina la loro diversità, reale o immaginata, che impedisce l’integrazione e cristallizza il loro modo di vivere non permettendo l’innovazione o il cambiamento, i Twa sono costretti a mantenere una propria memoria non riconosciuta e antitetica rispetto a quella condivisa. Una memoria che parla della loro storia, tradizione, e del loro essere vittime in un contesto nazionale e internazionale che ha scelto da tempo solo i Tutsi, vittime del genocidio, come portatori di questa “etichetta”. Come suggerito da Maurice Halbwachs,
 
I nostri ricordi vivono in noi come ricordi collettivi, e ci sono rammentati dagli altri, anche quando si tratta di avvenimenti in cui siamo stati coinvolti solo noi, e di oggetti che solo noi abbiamo visto. Il fatto è che, in realtà, non siamo mai soli. Non è necessario che gli altri siano presenti, che si distinguano materialmente da noi: perché ciascuno di noi porta sempre con sé e dentro di sé una quantità di persone distinte. (Halbwachs, 1996, p. 38).
 
Questo comporta, per i gruppi, non solo la possibilità di mantenere un proprio patrimonio di ricordi collettivi, ma anche, purtroppo, una sempre più forte difficoltà nell’affermare l’esistenza di altre verità ed eredità del passato quando esse non si uniformano alle necessità del presente. Se, come afferma Paul Ricoeur, la memoria di un individuo è formata da piccole isole vicine fra loro ma divise dagli abissi dell’oblio e del tempo (Ricoeur, 2004, p. 52), l’opposizione fra identità e memorie conflittuali, fra diverse percezioni del sé e del proprio ruolo sociale, aumenta queste distanze, erodendo i ricordi più dissonanti e favorendo la condivisione di un pensiero unico, di un unico punto di vista.
 
L’orrore che ha colpito il Rwanda ha creato quindi una memoria ufficiale che non tiene conto della memoria dei Twa, delle vessazioni subite, della loro difficile esistenza. La memoria condivisa, la negoziazione sociale già difficile fra Hutu e Tutsi, esclude volontariamente il popolo di argilla, poiché il più fragile, il più problematico, portatore di una verità scomoda che potrebbe cambiare la percezione dei due gruppi e dell’unità nazionale. L’ammettere infatti l’esistenza di un terzo gruppo, il primo a risiedere nell’area dell’attuale Rwanda-Burundi, da secoli vittima di violenze e discriminazioni, scardinerebbe totalmente i principi su cui si basano le due diverse posizioni all’interno della sfera tradizionale rwandese, demolendo il mito dell’età dell’oro degli Hutu, che si ritengono i primi abitanti del Rwanda, ma anche l’immagine positiva dei Tutsi, capaci di compiere verso altri ciò di cui sono stati vittima. In un rapporto dualistico fra buoni e cattivi, fra Tutsi e Hutu (Fusaschi, 2000) non sembra esserci posto per un terzo soggetto, per una vittima assoluta che non può vantare origini camite, come i principi Tutsi, o la forza di pressione sociale degli Hutu.

 
È un popolo invisibile, un gruppo che vive ai margini di un contesto in continuo mutamento, ma necessario, poiché in esso permangono elementi tradizionali e pre-moderni ormai difficilmente riconoscibili in altre realtà del Paese delle Mille Colline (Costa, Scalettari, 2004).
 
L’argilla, da elemento principale della loro sussistenza, diviene ciò che connota i Twa fra loro e nella relazione con l’altro, l’elemento simbolico distintivo che interviene nella definizione dei ruoli e delle modalità di interazione (Mead, 1966). Nessun elemento culturale, nessuna memoria individuale o collettiva funziona nella loro rappresentazione o auto-rappresentazione come l’argilla. Un popolo che vive ai margini, immobile nella percezione degli altri, con evidenti fragilità ma anche con la grande capacità di adattarsi, di trovare nella flessibilità la chiave della sua conservazione. Esattamente come l’argilla, che non può vincere in forza con altri materiali, ma può trovare nei suoi molti usi e funzioni diverse la chiave della sua sopravvivenza.
 
Bibliografia
Amselle J., M’bokolo E., Au Coeur de l’ethnie. Ethnies, tribalisme et état en Afrique, 1985, trad. it. L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma, 2008.
Costa P., Scalettari L., La lista del console, Paoline, Milano, 2004.
De Carolis A., Il popolo di argilla pregiudizio etnico ed emarginazione sociale dei pigmoidi Twa del Burundi, Officina, Roma,1978.
Fusaschi M., Hutu Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Halbwachs M., La memoire collective, 1968, trad. it. La memoria collettiva, Unicopli, Milano, 1996.
Kagabo J., Mudandagizi V., Complainte des gens de l’argile. Les Twa du Rwanda, 1974, in “Cahiers d’Etudes Africaines”, XIV, 1.
Lewis J., The Batwa Pygmies of the Great Lakes Region, MRG, Londra, 2000.
Manzoni A., (1825-1826), I Promessi Sposi, Mondadori, Milano,1966.
Mead G.H., Mind, Self, and Society, 1934, trad. it. Mente, sé e società, Ed. Universitaria, Firenze,1966.
Ricoeur P., Das Ratsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergassen – Verzeihen, 1998, trad. it. Ricordare, Dimenticare, Perdonare, L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna, 2004,
Scaglione D., Istruzioni per un genocidio Rwanda: cronache di un massacro evitabile, EGA, Torino, 2003.
Triulzi A., (a cura di), Dopo la violenza, costruzioni di memoria nel mondo contemporaneo, Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005.
Van Der Burgt J. M. M., Dictionaire francaise-kirundi, Bois-le-Duc, Anversa, 1903.

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