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Salviamo l’Africa?

Uno sguardo sull’industria dell’assistenza: immagine, proclami, pochi risultati

Mentre in Italia si parla poco di ONG\ONLUS, cooperazione internazionale, bilanci, progetti, spese, in Inghilterra non si scherza. Ci informano da Londra di un articolo del Daily Mail. “The Government department in charge of eradicating global poverty spent almost £ 6million of taxpayers’ money on first-class and business-class travel in just one year”. Cioè 6 milioni di sterline volate vie per i viaggi dei funzionari. Lassù giustamente le associazioni dei consumatori guardano. Si ritorna a parlare del DFID (Department for International Development), l’ente governativo incaricato della cooperazione internazionale che in GB (come del resto gli analoghi altrove) dispensa soldi a destra e sinistra (con priorità ai suoi dipendenti) senza curarsi di come siano spesi.

Tanti soldi in ballo per salvare l’Africa, i poveri del mondo, per eliminare fame, malattie, morte, tutto il male. Il “big push forward in Africa to end poverty” disse Tony Blair a Davos nel 2005; intenti ribaditi nei G8 a Glebeagles e in Germania a Heiligendamm (2007) e, infine, in Giappone in cui si riaffermò tutto quanto: We are firmly committed to working to fulfill our commitments on ODA made at Gleneagles, and reaffirmed at Heiligendamm, including increasing… ODA to Africa by US$ 25 billion a year by 2010.». Poi si voleva oltre che eliminare la povertà, making efforts to address civil war and «failed states.

Slogan fatti propri dal gruppo di rockstars capitanate da Geldof «Make Poverty History», addiritturta il patinato Vanity Fair s’è messo in testa di salvare l’ Africa (2007), Madonna va in Malawi, Bono, Bill Gates, la Regina di Giordania Rania, tutti vogliono ridurre la povertà in Africa entro il 2015. Gran battage pubblicitario che ha portato soldi a tutto il sistema dell’industria dell’assistenza (ufficiale, come gli amici del DFID o del World Food Programme e non governativo ONGs, come CCS Italia, Intersos, etc.).

Quando riceviamo dal Mozambico le testimonianze di operatori e beneficiari che ci scrivono: “Sono stato a Beira per mie cose, nel frattempo ho incontrato alcuni lavoratori del ccs, abbiamo parlato delle attivita svolte, non ti dico una vergogna, non hanno combinato niente, piu o meno come a Vilanculo, hanno costruito due case per professori, senza le latrine, per cui l’educazione le ha rifiutate”. Qui a Vilankulos ho incontrato quattro direttori di scuola, loro mi hanno detto che, a parte il kit escolare non hanno ricevuto altro. Sul sito del CCS Italia ho visto la testimonianza di una signora che si dice molto soddisfatta del CCS, ma penso che non sappia che il suo bambino riceve 3 euro mentre lei ne spende 240. Non resta che dire che non sempre un maggior flusso di soldi porta qualcosa ai beneficiari.

Tesi, in grande, sostenuta da tempo da molti, fra i più noti l’economista indiano Banerjee «my sense is that the dramatic reduction in world poverty between 1981 and 2001 was driven largely by events in India and China, where donors had very little impact.» , l’economista zambiana Dambisa Moyo una delle ragioni dell’arretratezza dell’Africa it’s largely aid. You get the corruption—historically, leaders have stolen the money without penalty—and you get the dependency, which kills entrepreneurship. You also disenfranchise African citizens, because the government is beholden to foreign donors and not accountable to its people.

Infine l’amato William Easterly, che ha scritto un lavorone CAN THE WEST SAVE AFRICA?, in cui si dimostra che, malgrado l’enorme gettito di soldi, incomparabile con altre parti svantaggiate del mondo (gli aiuti sono passati dal 2000 da USD 18 milioni a 38 milioni nel 2006 per un totale di oltre 714 miliardi di dollari negli ultimi 20 anni), il divario fra Africa e altre regioni in via di sviluppo si è allargato. Il livello economico complessivo di molti paesi africani nel 2006 e sceso drammaticamente rispetto al 1973, (quando si raggiunse il massimo livello di crescita economica)

Anche i dati sbandierati dai nuovi benefattori come i Gates, sembrano un po’ approssimativi come tutta la politica di cooperazione internazionale. In Ruanda, purtroppo, la malaria non è diminuita del 45% come pubblicizza la Fondazione dei Gates ma le morti sono aumentate dal 2001 al 2006, scrive un Rapporto del WHO (2008) e in altri paesi citati dalla stessa Fondazione risulterebbe che the effects of malaria control in Zambia were “less clear,” e in Etiopia, “the expected effects of malaria control are not yet visible.” Lo stesso Rapporto ci ricorda (come già segnalato in altri posts) che, date le condizioni ambientali, i metodi di analisi utilizzati e la mancanza di dati sul campo è molto difficile indicare numeri precisi.

Continuando a leggere lo studio di Easterly si scopre che, malgrado i molti problemi del continente africano, molti fundraiser descrivono una realtà peggiore, piena di stereotipi utili a raccoglier fondi. Gli indicatori relativi a corruzione, governance, guerre non sono molto dissimili da altre regioni povere del mondo. Non si resiste, sotto natale, a "habitual inflation of estimates of expected deaths” racconta un veterano del settore (Alex de Waal).

Fra i cardini del marketing dell’industria dell’assistenza ci sono i fantasmagorici MDGs (Millennium Development Goals), i cui obiettivi fissati nel 2000 sono, più o meno, gli stessi stabiliti dal colonialista Committee of the African Research Survey nel 1938, in entrambi casi obiettivi irreali e ben lontani da essere raggiunti. Obiettivi talmente generici che sembrano fatti apposta per fare solo un po’ di spettacolo.

Nota, invece Easterly, che cose più concrete e sostenibili nel tempo quali: qualità dell’educazione (problema da 20 anni scritto in tutti i rapporti senza risultati), controlli sull’utilizzo degli aiuti (studi in Guinea, Cameroon, Uganda, and Tanzania stimano che fra il 30 e 70 % dei medicinali forniti dal governo, tramite aiuti internazionali, finiscano nel mercato nero); nel 2004 un’inchiesta del governo ugandese dimostrò che solo il 13% dei fondi pubblici (in gran parte provenienti da donatori internazionali) raggiungevano le scuole locali a cui erano destinati (fenomeno verificato anche in Nepal e in altri paesi). Bastò la pubblicazione sui giornali locali delle somme destinate e mai pervenute per mobilitare genitori ed insegnanti perché bastonessero i burocrati locali. Lo stesso stavamo facendo noi in Nepal con i “community auditing” in cui i dirigenti scolastici dovevano elencare alle comunità donazioni ricevute e spese. In molti casi per far funzionare le cose basta solo un po’ di voglia di lavorare e di fantasia.

Per rimanere nella sanità, segnala giustamente Easterly, che il gran battage sull’AIDS (sicuramente più impressionante per l’opinione pubblica occidentale e donatrice rispetto a TBC, diarrea, difterite) ha distolto risorse «levels of attention and effort directed at preventing the small proportion of child deaths due to AIDS with a new, complex, and expensive intervention.». Mentre l’AIDS causa il 3.7 % della mortalità infantile, per combatterlo viene utilizzato il 25 % degli aiuti sanitari internazionali. Per questo la prestigiosa rivista medica Lancet scrisse che 5.5 million child deaths could have been prevented in 2003.

Mentre si parla e straparla di crisi alimentare sono drammaticamente calati i progetti di sviluppo agricolo (troppo lavoro, risultati nel lungo periodo e poco attrattivi per i donatori), tant’è che la produzione pro-capita di cibo in Africa è calata sotto i livelli degli anni ’70. In molti Rapporti delle Nazioni Unite si legge: “The failure of past initiatives in agriculture led to a reduced confidence among donors in agriculture in the 1980s …and many donors have since turned to other sectors.» FAO (2006) : «Ten years later, we are confronted with the sad reality that virtually no progress has been made towards that objective.»

Gli scritti di Easterly rappresentano l’inefficacia complessiva del “sistema” dell’industria dell’assistenza, con qualche rara eccezione, da lui stesso segnalata. Sarebbe una sana lettura per i tanti fancazzisti che ciondolano fra Nazioni Unite e INGOs, come lo sarebbe il lavoro di Robert Chambers, Poverty Unperceived che, fra l’altro, riporta alcune pratiche già segnalate in altri posts che si possono riassumere con il tremine fancazzismo, sopra citato.

Cioè, scrive in forma più sfumata Chambers, i funzionari delle Nazioni Unite e INGOs, vivono, bivaccano nelle capitali dei paesi in cui operano, si autoreferenziano con convegni e workshops in grandi alberghi, non vanno sul campo (nei villaggi e nelle comunità), percepiscono i bisogni dei beneficiari attraverso le elites dei paesi poveri a cui hanno delegato il lavoro.

Semplifichiamo: gran parte dei problemi di efficacia della cooperazione internazionale, evidenziati dal lavorone di Easterly, non hanno forse causa nel fancazzismo di chi ci lavora e pensa solo al proprio mantenimento?

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